Riders licenziati, Foodora vince. Il tribunale: “Non sono dipendenti”
18aprile 2018 da Sindacato Generale di Base Pisa
Respinto il ricorso dei fattorini che si erano opposti ai licenziamenti, rivendicando l’esistenza di fatto di un rapporto di lavoro subordinato, ovviamente i legali annunciano ricorso, mentre i sindacati chiedono di aprire una stagione di contrattazione per gli addetti alla gig economy.
Siamo in attesa di conoscere gli esiti della prima assemblea nazionale tenutasi a Bologna lo scorso fine settimana, ma anche di leggere la sentenza con la quale il Tribunale di Torino ha respinto il ricorso di sei riders licenziati dopo uno sciopero del 2016. Sicuramente questa sentenza sfavorevole farà giurisprudenza e se un lavoro improntato al massimo sfruttamento viene giudicato legittimo, lo sfruttamento non potrà che rafforzarsi ed estendersi.
Un fatto di grande importanza la nascita di un coordinamento nazionale, ma già si stanno avvicinando interessati osservatori nell’ottica di non contestare la natura delle piattaforme.
In Toscana la uberizzazione del lavoro non è ancora arrivata o meglio non ci facciamo mancare niente in materia di sfruttamento basti ricordare le vendemmie, le raccolte estive o autunno inverno o al fenomeno variegato ed assai esteso dei giovani che portano pizze o cibo per conto di esercizi commerciali, che mettono loro a disposizione una moto (spesso neppure quella limitandosi a un generico rimborso di spese carburante) e con retribuzione al nero. Poi ci sono gli stagionali estivi nei luoghi di mare, figure spesso tuttofare pagate poche euro all’ora e impiegati una novantina di giorni all’anno. A chiunque è capitato di imbattersi in queste figure di una precarietà antica non governata dalle piattaforme, spesso studenti alla ricerca di un reddito per integrare l’aiuto economico di famiglie sempre più in crisi, per non parlare dei cosiddetti intermittenti che al raggiungimento dell’età di 25 anni possono, come stabilito da una recente sentenza, essere mandati a casa.
Dopo la sentenza di Torino, che non riconosce ai dipendenti di Foodora il carattere subordinato del loro lavoro, anche i giornali più restii ad affrontare le piaghe del lavoro sottopagato mostrano segnali di interesse. Da anni ormai il diritto del lavoro è stato letteralmente stravolto e l’avvento della cosiddetta rivoluzione digitale della gig economy imporrà anche al più riluttante legislatore la dovuta attenzione verso questi lavoratori. Qualche esperto di piattaforme ha avuto da ridire sul ricorso dei legali torinesi, probabilmente perché ormai si accetta come ineludibile il fatto che si possa essere governati e gestiti attraverso uno smartphone, comandati in ogni mossa senza vedere riconosciuto il carattere subordinato della prestazione lavorativa.
Sicuramente il diritto del lavoro in Italia da anni è sotto assedio, in altri paesi del Nord questa tipologia di lavoro è più sviluppata e l’occasionalità della prestazione lavorativa è ormai accettata da tutti come un fatto incontrovertibile, da qui forse scaturiscono le critiche verso un ricorso basato sul riconoscimento del carattere subordinato della prestazione lavorativa dei fattorini.
Le piattaforme non sono qualcosa di neutro, non sono solo meri intermediari tra il lavoratore e il cliente, la natura autonoma della forza lavoro è in realtà fittizia e anche se non viene riconosciuto come tale possiamo parlare (poi dimostrarlo in aule del tribunale diventa assai più difficile considerando che il diritto del lavoro è anche risultato dei rapporti di forza tra capitale e lavoro stesso) di subordinazione vera e propria. Ovviamente vi è tutto l’interesse a vedere nei postini una sorta di partita Iva o di Collaboratori Occasionali, quando invece l’attività regolativa viene gestita interamente da una piattaforma, che controlla ogni movimento del lavoratore e che può magari scegliere di non prestare la propria opera in determinati giorni ma, con celerità può anche trovarsi escluso.
Il mancato riconoscimento della condizione subordinata è solo un vantaggio per la piattaforma che può abbassare il costo del lavoro, aumentare i ritmi e i tempi, tenere collegato il singolo lavoratore al suo smartphone 16\18 ore al giorno. Con la scusa che i margini di mercato sono sempre più ridotti e il consumatore indebitato e impoverito invoca la riduzione delle tariffe, la piattaforma sta decretando una organizzazione del lavoro darwinista, chi non tiene i ritmi viene cacciato fuori e ogni occasione è favorevole per abbassare il costo del lavoro.
Non si tratta allora di piegare queste prestazioni lavorative solo al carattere subordinato ma di comprendere innanzitutto il ruolo non certo neutro della piattaforma, come si determina la dittatura dell’algoritmo.
In un colpo solo, il lavoratore che consegna cibo non è più un lavoratore autonomo visto che ogni movimento e gli stessi orari sono decretati dalla piattaforma ma allo stesso tempo non è neppure pienamente assimilabile al lavoro subordinato vero e proprio. Il Tribunale di Torino ha deciso di negare il carattere subordinato di questa tipologia di lavoro ma allo stesso tempo ha riconosciuto la natura coordinata e autonoma demandando alle parti il compito di trovare un accordo e di chiudere questa figura dentro un quadro legislativo ad oggi inesistente. Ma al di là delle dispute su lavoro parasubordinato o autonomo resta ineludibile lo sfruttamento del lavoratore delle piattaforme e la incapacità di catalogarlo o di disciplinarne l’attività secondo l’attuale diritto del lavoro, come non viene risolto il problema della rappresentanza di questi lavoratori.
In realtà la piattaforma tende ad individualizzare il rapporto di lavoro a isolare il singolo lavoratore anche quando opera nelle stesse condizioni di tanti altri colleghi\e. Da ricordare poi l’assenza di reali tutele di queste figure lavorative prive di effettive garanzie . In un mondo del lavoro dove la libertà di licenziamento è resa possibile senza la reintegra, evidentemente anche dimostrare la natura subordinata dei lavoratori delle piattaforme è sempre più difficile. Conviene a molti, non solo agli invisibili padroni delle piattaforme, aggirare la questione dell’inquadramento giuridico di questi lavoratori, per trovare soluzioni “pratiche” ma insoddisfacenti quali un monte ore garantito a ciascun lavoratore, la corresponsione di una indennità legata al maltempo e ai festivi, fissare un budget per la manutenzione dei mezzi e dello smarphone. Una sorta di salario minimo svincolato da un contratto nazionale e da regole certe, accettando che una consegna della durata superiore a 30 minuti possa essere anche pagata meno di due euro. Una sorta di lavoro semi gratuito che porta il lavoratore delle piattaforme a condizioni sempre più inique. Ricordiamo che i sei riders che hanno portato Foodora in Tribunale erano stati licenziati, pardon esclusi, dopo avere organizzato uno sciopero nell’anno 2016 rivendicando il carattere subordinato della loro prestazione lavorativa alle piattaforme.
Ora, il rischio è quello che Cgil Cisl Uil si impossessino delle rivendicazioni di tutti i riders provando a convincere il Governo , con l’ausilio delle autonomie locali che hanno scelto, come il comune di Bologna, di sostenere almeno in apparenza queste istanze, nell’ottica di favorire contratti metropolitani svincolati dai contratti nazionali oggi esistenti. Non a caso l’assessore di Bologna, presente alla due giorni dei riders nel capoluogo emiliano, ha subito asserito di essere concorde con l’economia digitale ma di volerla solo equilibrare con alcune regole a tutela dei lavoratori. Nel recente passato si è detto la stessa cosa del lavoro gratuito ai tempi di Expo, in breve abbiamo visto a cosa ci hanno portato, ossia alla istituzionalizzazione del lavoro gratuito stesso estendendolo anche alle scuole superiori sotto forma di stages.
La subordinazione dei riders è del tutto evidente, il lavoratore non controlla in alcun modo la sua attività e per questo definire la prestazione occasione o autonoma è insensato. Per queste ragioni bisogna pensare ad esperienze europee dove questi lavoratori hanno dato vita a forme di organizzazione dal basso, un coordinamento costruito come una rete di mutuo soccorso.
La consapevolezza della propria condizione e il rifiuto di subire condizioni di lavoro e di vita sempre più deteriorate dovrebbe costituire la premessa necessaria a non cedere alla normalizzazione. Rinviamo a una riflessione sull’argomento che ci sembra un buon punto di partenza per comprendere il problema , inquadrarlo e passare a forme di organizzazione e di resistenza allo sfruttamento delle piattaforme consci che questa modalità di lavoro è destinata ad allargarsi come accaduto al lavoro gratuito. Ma prima urge ricordare che i dipendenti di alcune piattaforme nel migliore dei casi raggiungono 1100 euro al mese ma per loro non esiste giorno di riposo, la loro disponibilità arriva fino a 12 ore al giorno per 360 giorni l’anno con i restanti 5 vissuti in simbiosi con lo smartphone. Se questo non è sfruttamento selvaggio come lo potremmo definire? Evidentemente il lavoro alle dipendenze delle piattaforme è così sfruttato e fuori controllo che hanno chiesto l’aiuto dei sindacati complici per trovare qualche forma di regolamentazione, ovviamente nell’ottica di mantenere la prestazione a livelli di paga da fame e senza possibilità alcuna per il lavoratore di avanzare rivendicazioni contro un padrone invisibile e apparentemente neutro.