“Non si dubita che l’innovazione sia la leva per la crescita di un paese; di contro neppure si dubita che la innovazione tecnologica possa talvolta determinare una diminuzione di posti lavoro”
(post precedente: “Start-up viaggio tra innovazione ricerca e imprenditorialità, le grandi-aziende e l’Università” del 28agosto 2017)
3agosto 2017 di Ruggero Morelli
Se quindi si ritiene che la ricerca sia da incentivare per migliorare le potenzialità dei servizi e dell’industria – l’Italia investe in ricerca un quarto di quanto investe la Germania – si deve riflettere e si devono governare i passaggi conseguenti. Ed oggi siamo tutti consapevoli che la ricerca è per lo più indirizzata a trovare forme per migliorare la salute, la sicurezza nel lavoro e la qualità della vita a certe età.
Quando nei laboratori di ricerca si scopre o si inventa un nuovo prodotto o processo, si apre una fase per la possibile industrializzazione: gli esempi sono alla portata di tutti sia nella storia dei due secoli passati con le prime tre fasi, sia nell’attualità con quella che chiamiamo la quarta rivoluzione o 4.0. E c’è già che delinea la prossima: industria 5.0.
Oggi, come ci hanno ricordato i docenti della Scuola Sant’Anna di Pisa, dopo il lavoro degli ingegneri si apre anche una fase interdisciplinare di confronto con altri specialisti per elaborare proposte organiche. Addirittura per dare un segno di attenzione al tema della occupazione è stata coniata la parola: Roboetica. Quindi alla ricerca si affianca anche il fattore sociale della conseguenza possibile di soppressione di posti di lavoro. Le tesi sul punto della diminuzione dell’occupazione in conseguenza di nuove tecnologie sono difformi. Irene Tinagli, economista, ci ricorda che Robert Solow, Nobel 1973, e Olivier Blanchard, capo economista del FMI, hanno sostenuto che:
’’L’evidenza empirica ci mostra che, in effetti, non esiste una correlazione positiva tra la crescita della produttività e l’aumento della disoccupazione, e neppure tra l’aumento dell’innovazione tecnologica e la disoccupazione. Su oltre cento anni di dati sull’economia statunitense e su quella francese, (http://economics.mit.edu/files/) al netto del periodo della Grande depressione, non si rileva alcuna correlazione significativa tra i due fenomeni.’’
Dallo studio dell’Istat:’L’Italia in 150 anni’’ si legge :
‘’Dagli anni ottanta anche in Italia si è avuta una fortissima diffusione della computerizzazione e dei processi di digitalizzazione; nonostante ciò, il numero delle persone in cerca di occupazione nel 2007 (prima della crisi finanziaria internazionale) era quasi la metà di venti anni prima, grazie alla crescita esponenziale del terziario e alla nascita di nuovi servizi. Una trasformazione economica e produttiva in realtà già in atto dall’inizio degli anni Settanta, il cui saldo complessivo è da considerarsi decisamente positivo. Nei quarant’anni tra il 1970 e il 2009 – anni di profondissima trasformazione tecnologica ed economia- l’industria italiana ha perso circa un milione di posti di lavoro, l’agricoltura un altro milione, ma i servizi ne hanno creati circa cinque milioni, con un saldo complessivo nettamente positivo .’’
E qui si innestano sia le forme di lavoro per la gestione e manutenzione dei nuovi prodotti, sia la formazione professionale per gli addetti. Ci ricorda ancora Irene Tinagli:
“… nel 2014 le richieste di lavoratori con competenze matematiche ed informatiche negli Stati Uniti sono state 5 volte superiori alla disponibilità di lavoratori disoccupati con quelle caratteristiche. Anche in Italia rilevazioni come per esempio quelle di Unioncamere sulle previsioni di assunzione delle imprese (rilevazione Excelsior) denunciano una forte difficoltà delle imprese a trovare alcuni profili professionali, in particolar modo quelli con elevate competenze tecniche ed informatiche. Assinform stima che in Italia nei prossimi 5 anni ci sarà una richiesta di 170.000 persone con competenze informatiche specifiche, per cui non abbiamo il sistema di preparazione necessario.”