13novembre 2017 da Andrea Vento,Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati Pisa
Intervento del Professore Gian Mario Cazzaniga, già ordinario di Filosofia Morale all’Università di Pisa, alla interessante e partecipata presentazione del nuovo libro del giornalista di Report Giuliano Marrucci,”Cemento rosso“, frutto delle videoinchieste realizzate lo scorso anno sul processo di urbanizzazione e di trasformazione economica e sociale che ha interessato la Cina negli ultimi 30 anni.
[Giuliano Marrucci, Cemento rosso Il secolo cinese, mattone dopo mattone, Milano, Mimesis, 2017]
Cemento rosso costituisce una testimonianza di prima mano, puntigliosamente documentata, tanto più utile su una questione su cui idee preconcette e notizie di terza mano si sprecano.
“Chi come me è nato culturalmente negli anni ’50, quando gli economisti dello sviluppo, o come si diceva allora del ‘decollo’ (take off), erano unanimi nell’asserire che per i paesi sottosviluppati sarebbe stato impossibile raggiungere gli standards di quelli sviluppati euroamericani, che solo il Giappone forse avrebbe potuto raggiungere questi standard essendo partito prima agli inizî del Novecento, ciò di cui la flotta zarista in effetti si accorse già nel 1905, non può non vedere l’esperienza cinese, il nuovo acronimo dei BRICs, etc. con ironia e non essere tentato di ricordare ai colleghi accademici che «ci sono più cose in cielo e in terra Orazio di quante ne vengano sognate nella tua filosofia…» Amleto (1.5.167-8)”.
Che la Cina si sviluppi rapidamente e possa sostituire gli Stati Uniti come potenza mondiale egemone è oggi questione che sta entrando nel dibattito. Ciò su cui vale la pena di riflettere è quale modello abbia seguito la Cina, quali siano gli sviluppi ulteriori possibili, quali altri paesi possano seguirne le tracce. Proprio sulla base della documentazione offertaci da Cemento rosso sembra di poter dire che la novità dell’esperienza sta nella sua natura federalistica e flessibile, si veda la concorrenza fra aree metropolitane, in particolare sulla costa all’inizio, per attirare investimenti esteri con detassazioni e gratuità di servizi, una flessibilità che ha permesso ripetuti cambiamenti in corso d’opera e che peraltro rende ancora più difficile prevederne gli sviluppi futuri.
La vulgata occidentale è che l’accumulazione è stata esogena, indotta da investimenti esteri, e che questi sono stati attirati dalla detassazione e dall’abbondanza di forza-lavoro a basso costo per produzioni destinate a fasce basse di mercato. Ma questa è solo la parte meno originale della storia, una storia non nuova che si è ripetuta e si ripete in molti paesi, si vedano gli insediamenti industriali italiani nei Balcani, ma che non ha gli stessi effetti. Vediamo allora dove sta l’originalità della via cinese.
In primo luogo l’accumulazione endogena è stata robusta, e la sua fonte principale è stata la rendita urbana derivante dalla costruzione di nuove città e da nuovi insediamenti industriali, una liquidità gestita da rappresentanti delle comunità di villaggio proprietarie della terra, peraltro spesso dirette da politici corrotti, cui lo Stato ha largamente delegato il processo di riconversione, riservandosi piuttosto massicci investimenti nelle infrastrutture: ferrovie, autostrade, porti e aeroporti. A questa fonte va aggiunto il risparmio di massa dei contadini inurbati per sostenere i familiari rimasti in campagna, lavoratori precari che sotto le pressioni del ciclo economico tornano periodicamente a casa, e anche una parte di queste rimesse è stata fonte di investimenti edilizî. Si è trattato, come rileva Marrucci, del «più vasto e rapido processo migratorio nella storia dell’umanità», essendosi inurbati in 30 anni 540 milioni di persone. Non conosco studi sul ruolo delle grandi famiglie dell’emigrazione, ma è probabile che nei processi di accumulazione vi sia stato anche un loro contributo, forse con la mediazione di Hong-Kong e forse con una qualche partecipazione delle Triadi.
Ciò che impressiona non è solo la capacità del Partito-Stato di controllare il processo mediante ampie deleghe, ma la rapidità di questo processo che già in questi primi anni del XXI secolo vede il passaggio da una fase di accumulazione a una fase di aumento dei consumi interni, compreso un forte aumento del turismo interno, come nuovo motore dell’attuale fase di sviluppo.
Tornando agli errori degli economisti degli anni ’50, va detto che non possiamo pretendere che fossero profeti. In primo luogo la scolarizzazione di massa, anche nei paesi poveri, ha portato a una crescita del capitale umano, su cui solo negli anni ’60 il Denison iniziava i suoi studi pionieristici, facendone un nuovo motore dello sviluppo. Qui i soggetti decisivi sono i governi, ma è significativo che sia Cina che India, su cui sarei meno pessimista di Marrucci, abbiano investito massicciamente in capitale umano e centri di ricerca, a differenza degli Stati europei che investono poco e degli Stati Uniti che investono abbastanza ma in funzione della tecnologia militare, che sembra non sia più direttamente trasferibile alla produzione civile come lo è stata in passato, e la crisi dell’economia sovietica negli anni ’70-’80 ne è stata conferma. Lo stesso declino della Gran Bretagna, dove lo sviluppo finanziario si è accompagnato a processi di deindustrializzazione, sembra esserne ulteriore conferma.
In secondo luogo la rivoluzione microelettronica ha introdotto tecnologie diffusive che non richiedono lunghi periodi di addestramento e forti investimenti in capitale fisso, mentre si incontrano bene con la scolarizzazione di massa. In terzo luogo la scommessa della globalizzazione se ha inizialmente contribuito a mettere in difficoltà il blocco sovietico vede oggi la libertà di circolazione dei capitali sfuggire al controllo degli Stati, mentre la circolazione della forza-lavoro è più contrastata ma difficilmente controllabile, basti pensare ai problemi che abbiamo in Europa con la crescita dei flussi migratori.
L’intelligenza della via cinese è stata di decentrare vincoli e controlli per i processi di inurbamento e di diversificare questi vincoli in rapporto ai livelli di scolarità-qualificazione. Qui il testo si sofferma giustamente sulla storia dei permessi di residenza (Hukou), condizione per usufruire di assistenza sociale, e sulle riforme in corso al riguardo.
In tutta questa storia sembra a noi che il punto-chiave sia la scelta di investire massicciamente in istruzione e ricerca, che il capitale umano sia il protagonista oggi di nuovi modelli di sviluppo, con forti analogie per Corea del Sud, Taiwan, Viet-Nam e Singapore, nonostante i regimi sociali siano eterogenei, mentre la diversa via seguita dall’India ha ugualmente nel capitale umano un protagonista dello sviluppo.
Se dalla storia presente passiamo al futuro, qualche previsione è forse possibile. Sul terreno dell’innovazione finora la ricerca cinese si è concentrata nei settori applicazione e sviluppo. È prevedibile si sposti verso la ricerca di base, oggi monopolio euroamericano. Sul terreno geopolitico gli investimenti nelle regioni occidentali hanno anticipato l’attuale progetto di nuova Via della seta attraverso cui la Cina passando per l’Asia centrale punta a competere con gli Stati Uniti per una maggiore penetrazione sui mercati europei, e per altri versi arrivando fino a Singapore, non senza evidenti implicazioni politiche. Sul terreno delle fonti di energia l’avere privilegiato carbone e petrolio ha prodotto livelli di inquinamento oltre la soglia di guardia. La risposta sembra essere un potenziamento di centrali nucleari e fonti rinnovabili, settore quest’ultimo dove in pochi anni la Cina è già divenuta leader mondiale, dalle pale eoliche ai pannelli fotovoltaici ai veicoli elettrici.
Quest’ultimo esempio ci permette di vedere meglio un punto di forza della Cina: le nuove produzioni da una parte sono guidate da stimoli statali con rapida efficacia temporale, basti pensare alla caduta di investimenti stranieri durante la crisi mondiale del 2008 e la risposta del governo cinese con stimoli agli investimenti pari al 12% del PIL, dall’altra le dimensioni dell’economia cinese permettono economie di scala che sono decisive per abbassare i costi e dunque per la competitività.
Se questi sembrano sviluppi futuri possibili, resta aperta la questione del rapporto con gli Stati Uniti e di un possibile passaggio di egemonia. Fare i profeti è un mestiere scomodo. Con questa riserva, sembra a noi che tre punti possano essere rilevati:
La Cina non sembra avere fretta e in questa fase insiste su prospettive multipolari regolatrici degli equilibrî mondiali. Si veda la lunga marcia per la convertibilità dello renminbi che si accompagna a proposte di paniere mondiale delle monete, gradualmente sostitutivo delle monete nazionali negli scambi.
- La Cina sembra avere anticipato le future difficoltà di rifornimenti per le economie industriali con accordi e acquisizioni in Africa e America Latina relativi a miniere, fonti di energia e produzioni agricole, mettendo si al sicuro per qualche decennio e non senza una crescita di influenza politica in queste aree.
- Nelle analisi occidentali sulla Cina è scarsa o assente l’attenzione sulla specificità culturale, quasi che l’ingresso nel WTO (World Trade Organization) sia stata una confluenza nei paradigmi culturali occidentali. Su questo punto la storia delle università e dei centri di ricerca cinesi, dove la ricezione di giovani dottorandi e ricercatori provenienti da punti alti della ricerca occidentale ha privilegiato anzitutto giovani di origine cinese, ci può aiutare a cercare di capire. Non c’è dubbio che nei prossimi anni dovremo fare i conti con nuove forme di produzione industriale in Cina. Ma dovremo anche fare i conti con l’identità culturale cinese che solo la nostra miopìa ci ha finora permesso di ignorare.