Il Trattato per il meccanismo europeo di stabilità, che tutti chiamano salva-stati o MES, sancisce ancora una volta il primato della finanza e se ne infischia dei diritti umani, di quelli più specificamente sociali e di quel che resta della democrazia. Non li cita neanche di sfuggita. È un altro passo verso un’idea dell’Europa delle disuguaglianze e tutt’al più condominiale: ogni Stato pensi a risolvere i suoi problemi se e come può, e si rivolga agli altri solo quando l’instabilità di uno minaccia quella di tutti
9 Dicembre 2019, di Francesco Gesualdi
I politici non sempre dicono la verità, ma ogni tanto hanno la capacità di attrarre l’attenzione su tematiche che i cittadini farebbero bene a seguire di più. Un caso del genere si è verificato di recente quando è stato portato alla ribalta ciò che i media hanno battezzato “Trattato salva stati”, il cui vero nome è “Trattato per il meccanismo europeo di stabilità”, in sigla MES. Un’analisi più dettagliata ci dice che il vero obiettivo del trattato non è la salvezza degli stati, bensì dell’euro minacciato da crisi di sfiducia ogni volta che gli stati si sovraccaricano di debiti.
La storia del MES inizia nel 2010, un periodo in cui più di uno stato europeo dell’area euro, si trova costretto ad accrescere il proprio debito, quale per salvare le proprie banche travolte da gestioni fallimentari, quale per tamponare gli effetti di una crisi economica che si sta trasformando in crisi sociale. E’ di questi tempi l’emergere degli stati maiali, appellativo attribuito non con l’intento di offendere chicchesia, ma perché il caso ha voluto che i paesi in maggiore difficoltà siano Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, le cui iniziali hanno permesso a qualche giornalista fantasioso di elaborare la sigla PIIGS, un acronimo che in inglese suona appunto come maiali.
Il debito, che in condizioni normali attrae gli investitori ansiosi di collocare i propri capitali, può trasformarsi in un potente repellente se diventa così alto da non dare più affidamento di restituzione. E poiché l’afflusso di capitali rafforza le monete, mentre la fuga le indebolisce, questa è la ragione per la quale il debito pubblico è diventato uno dei temi di maggiore attenzione per l’Unione Europea, in particolare per i paesi che condividono l’euro. Attenzione esercitata attraverso due modalità. La prima vigilando affinché nessuno stato si indebiti oltre misura. La seconda, soccorrendo i paesi in maggior difficoltà affinché la crisi rimanga circoscritta al loro interno. Una sorta di cordone sanitario per evitare che vengano risucchiati nella crisi anche gli altri paesi e soprattutto l’euro.
Nel 2010 i primi stati a manifestare un gran bisogno di prestiti, ma ormai così decotti da non ricevere più neanche un euro dai privati, furono Irlanda e Grecia, che però trovarono un’Europa non ancora organizzata per intervenire in maniera centralizzata a sostegno dei paesi membri afflitti da crisi finanziarie. Per cui inizialmente la situazione venne tamponata con prestiti bilaterali da parte dei singoli governi. Quello italiano, ad esempio, nel 2010 a titolo unilaterale prestò alla Grecia una diecina di miliardi di euro, essi stessi raccolti a debito. Solo più tardi venne formato un fondo comune d’intervento che dopo vari appellativi, nel 2012, assunse il nome definitivo di MES (ESM in inglese).
All’inizio, però, il MES non poteva essere considerato un organismo facente parte a pieno titolo all’architettura dell’Unione Europea perché non sussistevano tutti i presupposti giuridici per includerlo. Solo più tardi gli aspetti giuridici mancanti vennero integrati e nel giugno 2019 i governi dell’area euro si sono accordati su una bozza di trattato che dà pieno accoglimento al MES nella casa europea. Il tutto in vista della firma definitiva concordata per una data di dicembre di quest’anno. Ed è stato proprio l’approssimarsi dell’imminente scadenza ad avere riacceso il dibattito attorno al MES.
Il trattato, che per diventare pienamente operativo deve ottenere la ratifica dei parlamenti dei 19 paesi aderenti all’eurozona, oltre a definire compiti, struttura e dotazione del fondo, stabilisce anche a chi può essere offerta assistenza e a quali condizioni. Premesso che il fondo elargisce solo prestiti, per giunta finalizzati anche al salvataggio delle banche, divide i possibili paesi richiedenti in due categorie: quelli con un debito moderato e quelli con un debito elevato. Ai primi chiede come contropartita solo l’impegno a proseguire sulla strada della moderazione. Ai secondi invece, impone regole molto più stringenti.
Ed è proprio questa differenziazione che alcuni reputano inaccettabile perché è come se i paesi dell’eurozona venissero ufficialmente divisi in buoni e cattivi, creando differenze ancora più marcate fra i paesi a debito moderato e quelli a debito pesante. A detta dei critici, gli investitori privati potrebbero inserirsi in questa crepa per imporre tassi di interesse più elevati ai paesi inseriti nella lista dei cattivi, prendendo a pretesto che la stessa Unione Europea li classifica come inaffidabili. In conclusione si potrebbe andare verso una definitiva conferma del differenziale esistente fra paesi dell’eurozona (il famoso spread), che invece di ridursi potrebbe continuare a crescere portando all’assurdo che i paesi forti paghino interessi bassi e quelli più in difficoltà interesse alti.
Un’altra critica mossa al Trattato è che i paesi a debito elevato potrebbero ricevere prestiti dal MES solo se fanno un tentativo di ristrutturazione del proprio debito. Che significa ottenere sconti dai creditori sul capitale da restituire. Un’ipotesi che molti vedono come una iattura perché metterebbe in difficoltà banche, assicurazioni e fondi pensione tradizionalmente forti detentori di titoli di stato. E poiché queste istituzioni gestiscono risparmio dei cittadini, alla fine sarebbero i cittadini stessi a subire i contraccolpi della ristrutturazione. Se le cose dovessero funzionare davvero così è tutto da verificare, ma la critica è infondata perché il Trattato non contempla l’obbligo di ristrutturazione, termine che non è mai citato neanche negli allegati.
Ciò che invece è contemplato è che il prestito ai paesi più indebitati sia condizionato alla firma di un accordo (meglio noto come Memorandum of Understanding) in cui siano elencate le riforme che il paese ricevente deve attuare per ridurre il proprio debito. Certo, fra queste può essere compresa anche la ristrutturazione, ma le esperienze passate ci dicono che altre sono le richieste più usuali. Valga come esempio la Grecia che dal MES e suoi antenati ha ricevuto prestiti a più riprese, ogni volta dovendosi impegnare a tagliare salari, pensioni, sussidi ai più poveri, in nome dell’abbattimento del debito.
Il trattato istituzionalizza anche la presenza della Troika, recitando testualmente che il rispetto del Memorandum sarà verificato in collaborazione con la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale. In conclusione il Trattato sancisce il primato della finanza senza tenere in alcuna considerazione le esigenze sociali, i diritti umani, la salvaguardia della democrazia, concetti che non sono mai citati neanche di sfuggita. L’anima sociale: ecco il vero aspetto che manca al Trattato. Caratteristica che emerge anche dalla decisione di lasciare che ogni stato risolva i propri problemi arrangiandosi da solo, sollecitando l’intervento degli altri solo quando l’instabilità dell’uno minaccia la stabilità di tutti.
Il MES insomma rappresenta un altro passo avanti verso la costruzione dell’Europa di tipo condominiale dove si sta assieme solo perché si condivide il tetto, le scale e l’ascensore, ma per il resto ognuno è estraneo all’altro, se non nemico. Tutt’un’altra Europa rispetto a quella sognata da Spinelli e gli altri padri fondatori che in tema di debito pubblico avrebbero chiesto soluzioni condivise a partire dall’emissione di titoli europei e di maggiore intervento da parte della Banca Centrale Europea. Da un punto di vista tecnico le modalità per conciliare riduzione del debito e salvaguardia sociale esistono. Ma il loro utilizzo dipende da come batte il cuore.