11agosto 2014 di Lisa Pelacchi e Gisella Seghettini
Una chiacchierata con Ascanio Celestini. Attore teatrale, regista, cantastorie e scrittore, franco e disponibile, generoso nel proprio tempo e nella voglia di raccontarsi. Senza scaletta, come i suoi spettacoli.
Ci vuoi raccontare qualcosa sullo spettacolo di stasera?
Di solito preparo la scaletta dello spettacolo con il mio fonico. Ma stasera è malato, sono solo. E non so bene cose farò. Salirò sul palco e racconterò delle storie, cercando di capire che tipo di spettatore ho davanti… in realtà nel teatro oggi è sempre più così. Se c’è una cosa divertente di questo lavoro è che tutto sommato l’attore il teatro c’è l’ha nella sua testa. Questo fatto a volte può creare anche dei problemi… pensate a quanto pago il mio analista per risolvere il teatro che ho nella testa! Però effettivamente è così… te lo porti dietro nonostante tutto. Una volta un mio amico pittore mi ha detto: io ti invidio, perché tu vendi il tuo spettacolo, ma poi te lo riporti a casa… mentre io quando vendo un quadro se lo porta a casa qualcun altro!
Conosci un po’ questi territori?
Ho abitato qualche anno tra Chianni e Castellina, prima di cominciare a scrivere. Ero con un gruppo e si faceva teatro…
Se tu fossi venuto l’anno scorso qui saresti stato nel comune di Lari, oggi sei nel comune di Lari Casciana Terme, grazie alla fusione fra i comuni. La stessa cosa è avvenuta in altri comuni qua vicino, come Lorenzana e Casciana Terme. Cosa ne pensi di questi accorpamenti fra piccole realtà locali? Da una parte sicuramente c’è un aspetto di ottimizzazione e di maggiore efficienza amministrativa, ma c’è anche chi sostiene il rischio che si perdano le identità e le tradizioni locali…
Pure da noi a Roma c’è stato un accorpamento di municipi, sostanzialmente però non è cambiato niente, perché di fatto le istituzioni non si occupano veramente dei territori. Sono le persone che lavorano nei territori. I territori non esistono più, a meno che… guarda in Val di Susa, si sono accorti del loro territorio solo quando è arrivato un treno che gli ha sfondato la porta di casa, altrimenti avrebbero continuato a vivere nelle loro villette e nel loro benessere. Quando Pasolini diceva che amava frequentare persone che non sapevano leggere e scrivere, perché ritrovava la cultura ad un livello altissimo… è la stessa cosa: la coscienza del territorio ce l’ha o chi c’ha veramente una grande coscienza, perché ha fatto un grande lavoro – su se stesso, sulla propria memoria, sulle persone che gli stanno attorno – oppure chi non può farne a meno. Se a Vicenza gli americani tornati dall’Afghanistan ti violentano tua figlia, forse prendi coscienza di vivere in una città militarizzata… sennò no. Stai a Vicenza, c’hai un sacco di soldi, c’hai l’acqua calda dentro casa, e non farai mai la rivoluzione.
Vuoi dire che ci accorgiamo solo a posteriori…
Voglio dire che bisogna fare un lavoro importante per rendersi conto di cosa è il territorio. Sennò, cos’è il territorio? Io ch’ho la rete, la televisione, il giornalaio sotto casa, il giardino… al massimo posso avere una coscienza civile che mi porta a comprare il pomodoro biologico e non quello zozzone del supermercato… ad esempio nel mio quartiere stavamo a fare una riunione per costruire i marciapiedi, che non ci sono: io a mio figlio, che ha 8 anni, da quando è nato gli dico che nella nostra borgata non ci sono i marciapiedi perché non è previsto andare a piedi. Alla riunione ci sono quelli che ti dicono che il marciapiede non lo vogliono perché poi non sanno dove parcheggiare! Hai capito? Che territorio?!! Nel momento in cui là ci faranno, che so, un inceneritore, allora sì vedrai le persone che si accorgono che il territorio esiste!
Il lavoro di Cicoria, Pasolini, è stato importante per te?
Quando ero ragazzo leggevo Pasolini e mi sembrava che parlasse del mio quartiere. Nei racconti dei Ragazzi di vita e Una vita violenta quello che mi colpiva erano queste grandi camminate. Magari chi li legge non ci fa caso, io ci faccio caso perché erano i racconti di mio padre, queste camminate in mezzo alla città, questa città che non finiva mai… come Pasolini nella poesia Dove arieggia il mio tempo: dove pensi che città finisca, in realtà ricomincia. Ed è così, questa città che non finisce mai, che è fata di strade, strade, e strade che vengono attraversate… mio padre raccontava queste storie in cui la città era un luogo che attraversavi realmente, per tornare a quello che dicevamo sui territori. Oggi invece lo spazio si è tutto schiacciato sul tempo: lo spazio non è una cosa che attraverso per davvero, ma è una perdita di tempo. Quanti chilometri devo fare per tornare dalla mia famiglia? Per me non è uno spazio da percorrere, ma è il tempo che mi ci vuole per rivedere mia moglie e i miei figli. Se dalla mia borgata, Morena, ho un appuntamento a Piazza di Spagna, quello non è uno spazio: è il tempo che mi ci vuole per arrivare alla metro, e poi da una fermata all’altra… spesso tra l’altro è anche un tempo in cui ti rompi un po’ le scatole, perché pensi che potresti arrivare prima! E questo succede non solo nelle città ma dappertutto: se devi andare a Ginevra consideri il tempo per arrivare all’aeroporto e poi il tempo del volo… e lo spazio che attraversi non esiste, per te.
Mi ha colpito quello che dicevi prima di tuo padre, che ti raccontava le storie sulla città… volevo chiederti quanta importanza ha che delle persone, magari a cui sei legato, ti raccontino delle storie, perché tu poi a tua volta ti appassioni, e diventa per te quasi una necessità, qualcosa che è nel tuo DNA…
Io mi sono accorto abbastanza tardi dei racconti che venivano fatti in casa mia… mio padre raccontava da quando era ragazzino, mia nonna raccontava storie di streghe… ma io non ero particolarmente consapevole di quello che stava succedendo. Poi andando all’università mi sono reso conto che mia nonna da quel punto di vista aveva un repertorio anche abbastanza importante. Queste storie sembravano delle fiabe di magia, ma non erano fiabe, perché la fiaba nella tradizione orale viene considerata una storia di invenzione. Invece mia nonna quando raccontava queste “fiabe di magia” le considerava vere.
Quando nella tradizione orale tu racconti qualcosa che è realmente accaduto, non è mai accaduto più di… diciamo cent’anni prima. Invece mia nonna le considerava vere e le collocava in un tempo remoto… Fino ad una certa età per me questo era normale, poi all’università mi sono accorto che era una cosa veramente strana. Le streghe di mia nonna, a differenza di quelle della cultura cattolica, non erano personaggi negativi: erano donne come tutte le altre donne, solo che avevano poteri enormi. Cattive o buone, ma comunque donne. La loro sfera era quella del femminile: cucinavano come le altre donne, ma cucinavano pozioni magiche. Avevano anche una sfera sessuale, ma ad una sfera “altissima”, con il demonio… tant’è vero che quando i padri o i mariti si accorgevano che quelle donne erano streghe, rischiavano la vita.
Quindi erano donne che si erano emancipate, ma all’interno di un mondo che era rimasto esclusivamente femminile: non si erano emancipate perché erano diventate avvocato, faccio per dire, o perché si erano tagliate i capelli o avevano trovato un buon impiego. Non erano uscite dalla sfera femminile, ma all’interno di questa avevano trovato la loro emancipazione. Diventando delle ultra-donne. Per mia nonna raccontare quelle storie era una specie di emancipazione attraverso il racconto. Tant’è vero che le raccontava ad altre donne, in genere in cucina. Una cosa straordinaria. Purtroppo questa cosa l’abbiamo persa quasi del tutto. Adesso non voglio fare un discorso antifemminista, figuriamoci… però se abbiamo tanti problemi anche rispetto al cibo, oggi li dobbiamo recuperare attraverso la gastronomia, perché non sappiamo più farlo attraverso la tradizione orale… noi abbiamo costretto le donne ad uscire dal loro mondo, perché per emanciparsi la donna doveva diventare “un po’ maschio”… Nella nostra cultura tremenda è stato un po’ così, quindi abbiamo perso un pezzo di patrimonio straordinario, che era quel mondo che accadeva lì, vicino ai fornelli.
Quanto dunque è stato importante per te che persone che amavi ti raccontassero queste storie?
Questo è il lavoro che faccio da un po’ di anni: faccio interviste, nel senso etimologico di “incrocio di sguardi”. Le prime volte all’università per me gli antropologi erano dei signori col papillon e i baffi che andavano a rompere le palle agli africani, insomma… e purtroppo è stato anche questo, una scuola di razzismo, andavano lì a misurare il cranio, il naso, queste cose per dire quanto erano diversi e quindi inferiori gli altri. Invece poi l’antropologia, con tutti i suoi sensi di colpa, è diventata altro nel corso del Novecento. È diventato che io attraverso l’altro capisco qualcosa che mi rappresenta e che mi riguarda. Questo è stato anche il lavoro che ho fatto io. Non era utile per me andare ad intervistare, che so, un cinese, era molto più sensato intervistare mio padre, mia nonna o mia madre. Che poi, incredibilmente comprendono l’importanza delle relazioni. Una volta mia madre mi ha detto: sono contenta che mi hai fatto questa intervista, perché abbiamo passato due ore insieme. E io ho pensato: ma chi gliel’ha detta questa cosa?? Dove l’ha letta? No, è che il senso dell’intervista è proprio questo: l’intervista è un incrocio di sguardi, io ascolto te, tu ascolti me, noi stiamo dialogando.
Video intervista: