«Una giornata storica, un momento di speranza e resistenza», così Dilma Rousseff ha definito lo sciopero generale che ha paralizzato il Brasile
1maggio 2017 di Geraldina Colotti
Il primo da 21 anni. «La lotta per giorni migliori per tutti i brasiliani è appena cominciata. L’ampliamento della democrazia ci porterà alla vittoria», ha scritto la ex presidente in un comunicato. A quasi un anno dall’impeachment che, il 31 agosto, l’ha sollevata dall’incarico dopo un lungo e viziato braccio di ferro, Dilma è più che mai in campo contro l’antico alleato centrista – Michel Temer – che l’ha pugnalata alle spalle per arrivare a un posto a cui non avrebbe mai potuto aspirare per la via democratica. Da allora, si sono moltiplicate le proteste contro il “golpista Temer”, che resta in sella nonostante la pesante ipoteca di corrotto che pesa sulla sua testa e su quella dei suoi ministri, alcuni dei quali già si sono dimessi per questa ragione.
L’ira della piazza, ormai, riguarda anche la tracotanza con la quale il governo salvaguarda gli interessi dei settori che rappresenta – le oligarchie e il grande capitale internazionale – piegando le regole a proprio favore e cancellando quelle che gli sono d’intralcio. Un’attitudine tornata in auge anche nei blocchi regionali dell’America latina ove i due grandi paesi passati a destra (Brasile e Argentina), contornati dal campo dei governi neoliberisti, fanno e disfano le norme per liberarsi dei soci ingombranti (Cuba, il Venezuela e i paesi dell’Alba). Per mettere il bavaglio ai giudici, almeno a quelli sgraditi, il senato brasiliano (composto anche da 24 eletti indagati per corruzione) ha votato un’apposita legge bavaglio. E un’apposita modifica costituzionale consentirà di riportare indietro l’orologio dei diritti basici, bloccando per vent’anni la spesa sociale.
Dopo la riforma delle pensioni, un’analoga riforma del lavoro all’insegna del neoliberismo selvaggio è passata al senato e ora può andare alla camera. Per i pensionati aumenta il periodo contributivo richiesto per poter smettere di lavorare e l’età pensionabile viene portata a 65 per gli uomini e a 62 per le donne. Al contempo, nella riforma del lavoro viene legalizzato il cosiddetto lavoro intermittente e soprattutto la possibilità per le imprese di bypassare i sindacati e sottoscrivere accordi individuali con i lavoratori. Difficile, in queste condizioni, che si possano maturare i contributi richiesti.
Viene anche abolita l’obbligatorietà di finanziare i sindacati con una giornata di lavoro, com’è da 73 anni (dal governo progressista di Getulio Vargas). Il Brasile conta 16.933 sindacati, in gran parte scesi in piazza per lo sciopero generale. I dati della gestione Temer indicano chi stia pagando i costi della ventilata “ripresa” a colpi di privatizzazioni massicce, licenziamenti e tagli feroci alla spesa sociale. Per la prima volta nella storia, il Brasile ha superato i 14 milioni di disoccupati, che – nei primi tre mesi di governo Temer – sono arrivati a costituire il 13,2% della popolazione attiva. Quanto di più distante dalle politiche di pieno impiego auspicate dai governi di Lula e di Dilma. Si calcola che quattro lavoratori su 10 siano precari e lavorino al nero, senza alcuna copertura.
La riforma del lavoro, gradita agli imprenditori e rifiutata dai sindacati, aumenterebbe anche il lavoro schiavo, ancora molto presente in Brasile, soprattutto nel tessile dove vengono impiegati migranti senza documenti. Un mese fa, il governo ha diffuso una lista nera di queste imprese, che ingrossano anche il mercato del riciclaggio del denaro sporco. Secondo i sindacati, la lista dovrebbe essere moltiplicata almeno per 40.
«Fora Temer», gridano i manifestanti e si scontrano con la polizia. A San Paolo, hanno provato ad attaccare la casa di Temer, che in quel momento si trovava nella sua residenza ufficiale, a Brasilia. A Rio de Janeiro la polizia militare ha usato pallottole di gomma e gas lacrimogeni per disperdere la folla che stava svolgendo un corteo di protesta davanti alla sede dell’assemblea legislativa, nel centro cittadino. Gruppi di dimostranti a volto coperto hanno lanciato sassi e bombe molotov in direzione degli agenti e hanno attaccato le banche.
Lo sciopero generale può considerarsi riuscito: nonostante il sabotaggio dei grandi media privati, che hanno sostenuto l’impeachment contro Rousseff e poi il linciaggio mediatico contro Lula da Silva, condannandolo come corrotto ancor prima che un qualunque tribunale riuscisse a processarlo. Lula, che ha dichiarato a più riprese la sua innocenza, ha chiesto di essere sentito dal giudice Sergio Moro a proposito della corruzione nella impresa petrolifera di Stato Petrobras.
L’udienza è stata spostata per ragioni di sicurezza, perché troppo vicina allo sciopero generale. Anziché il 3 dovrebbe tenersi il 10 maggio nella città di Curitiba (nel sud), ma la situazione per quella data potrebbe restare incandescente. Temer mantiene ferma l’intenzione di «modernizzare il quadro di leggi nazionale» ed esclude il dialogo con i sindacati: il dibattito sulle riforme, ha detto, «si realizzerà nella sede adeguata, il Congresso». Le manifestazioni? Opera di «gruppetti isolati», ha affermato. E per il ministro della Giustizia, Osmar Serraglio, quello in corso «non è uno sciopero nazionale, perché il commercio funziona, le industrie funzionano e i lavoratori stanno andando regolarmente ai loro posti di lavoro». Si tratta piuttosto di «caos generalizzato».
Uno sciopero politico, che ha come scenario le elezioni presidenziali del 2018. Lula resta il favorito nei sondaggi, ma dietro di lui c’è il “Trump brasiliano”, il torvo Messias Bolsonaro. Lula e l’arco di forze che lo sostiene – anche la chiesa cattolica progressista ha appoggiato lo sciopero generale – spingono per anticipare il confronto con le urne: «Questo paese non è governato e sta passando per la peggior recessione della sua storia – ha detto Lula – Questo paese non ha bisogno di qualcuno che occupi l’incarico indebitamente, ci vogliono elezioni dirette e senza aspettare il 2018». Un’assemblea costituente, dunque, richiesta da tutte le organizzazioni popolari che hanno promosso lo sciopero e ora sostenuta anche da Rousseff e da Lula.
La situazione brasiliana aiuta a riflettere anche su quel che sta succedendo in Venezuela dove le proteste violente ci sono, ma di un altro segno e per opposte rivendicazioni. Praticamente tutte le sigle che hanno organizzato lo sciopero generale – dal Partito dei Lavoratori, alla sua sinistra più radicale, ai sindacati, ai movimenti dei Senza terra e dei Senza tetto, alla chiesa di base – hanno sottoscritto un documento consegnato all’ambasciata del Venezuela a Brasilia: per esprimere il proprio appoggio alla “rivoluzione bolivariana” e per condannare le ingerenze esterne e gli attacchi delle destre, il cui volto più mediatico, Lilian Tintori, ha sostenuto la campagna elettorale di Macri in Argentina e il governo di Temer.