IL SISTEMA PARLAMENTARE NEL “TRITACARNE” DEL SISTEMA POLITICO

Di Salvatore D’Albergo

sDi fronte al progressivo scivolamento delle proposte di revisione costituzionale – sulla scia, o a latere della modifica tanto controversa della legge elettorale – verso soluzioni tanto osteggiate da rischiare la ennesima vanificazione nelle mani di quella destra che sta fuori dal governo, e può però impedire il formarsi della maggioranza parlamentare idonea ad eludere il vincolo del referendum c.d. “confermativo”, si rende indispensabile sottrarsi ad una sorta di guerriglia delle proposte e delle controproposte che – per quanto particolarmente concerne i destini del “bicameralismo paritario” – piuttosto che chiarire i termini reali delle alternative, sono sempre più costrette a inseguire soluzioni prive di un ancoraggio a principi compatibili con la forma di stato e con la forma di governo tuttora vigenti . Benché a loro volta sottoposte a varie forme di tensione , specie di quei partiti estremi che non hanno mai attenuato il loro principale interesse per una revisione “organica” della  Costituzione.

Urge una operazione politico-culturale per reperire e considerare le ragioni fondative addotte dai Costituenti per superare il tradizionale “bicameralismo perfetto” con un “bicameralismo paritario”

Quindi la necessità di uscire dall’attuale “impasse” non è dovuta soltanto all’esigenza di districarsi dalle congerie di proposte – che si susseguono quotidianamente, nell’affannosa rincorsa di intese più o meno fondate su presupposti validi – ma anzitutto sull’urgenza di reperire le cause fondative – sia risalenti, sia attualizzate non solo dall’attuale ripudio del “bicameralismo” più o meno spurio, sia – e sopratutto – dai motivi che, se accolti già a partire dalla fase elaborativa di competenza dell’Assemblea costituente, avrebbero configurato in  termini completamente diversi gli assetti del nostro sistema costituzionale.

Procedendo ad una operazione politico-culturale oggi del tutto sostituita dal rincorrersi di proposte persino prive di argomentazioni, va cioè tenuto presente che con varia incidenza hanno operato solo pochi giuristi, si che i più autorevoli costituenti a nome dei rispettivi partiti politici, sono stati alcuni “leaders” a nome dei vari gruppi dirigenti, ciò che ha tolto a quella elaborazione fondante quelle forme di angolazione ristrette e settarie che si contendono il campo del processo “revisionista”, trascinantesi – per varie fasi – da oltre 30 anni, sempre però nelle angustie di uno spirito volto a sopraffare il sistema costituzionale con gli espedienti suggeriti dalle intemperanze dei partiti per conquistare meglio posizioni di potere.

Il fallimento dell’obbiettivo di riportare in auge Prodi a nome del PD ha costretto Giorgio Napolitano a giocare a carte scoperte, attraverso passaggi ai limiti ed anche fuori dalla Costituzione, rivendicando la legittimità della seconda candidatura a Capo dello stato, per poi scatenarsi in un protagonismo ancor più imprevedibile ed eclatante, volto a trasfigurarlo in un ruolo che ha precedenti solo in ordinamenti di tipo africano/asiatico, ove è latitante ogni minima visione di rispetto degli equilibri più elementari delle regole di convivenza.

Ciò implica che si ricostruiscano le connessioni maturate nel dibattito costituente tra i nuovi fondamenti del bicameralismo ancora diffuso nei principali ordinamenti dal punto di vista della struttura sociale e politica, per il concorso con la Camera dei deputati a delineare i caratteri della forma di governo parlamentare, in coerenza con i principi di fondo destinati ad innovare complessivamente gli istituti che connotano sia la Prima che la Seconda Parte della Costituzione con vari criteri di interconnessione che HANNO RESO INSCINDIBILI i rapporti civili, economico-sociali e politici delle strutture di potere funzionali a rendere operante la DEMOCRAZIA della Repubblica FONDATA SUL LAVORO.

saIn tal senso, la questione del ruolo del Senato, la cui origine storica per l’Italia rimanda al ruolo della Monarchia superata dal referendum del 1946, è venuta subito a configurarsi come un passaggio particolarmente delicato, per convergenti opposte ragioni, dovendosi in tale ambito innovare superando le remore derivanti dal passato recente, in vista di una pariteticità tra le due camere da collocare in una prospettiva del tutto  nuova, nonostante che legati al passato monarchico fossero rimasti ancorati personaggi autorevoli anche al livello di Capo dello Stato. Elemento decisivo per una svolta foriera di più implicazioni, fu la decisione di indurre l’importante novità di un istituto di “autonomia” territoriale, sociale-economico e politico come la Regione a Statuto “ordinario”, a fronte di alcune Regioni a statuto “straordinario”,  che anche da tal punto di vista videro accogliere spinte innovatrici sul terreno economico-sociale impegnando la cultura e la politica sugli ardui problemi della programmazione democratica dell’economia, benché alcune forze politiche puntassero più sul ”decentramento” che ad una “autonomia”, lentamente ma sempre più decisamente i tre grandi partiti di massa riuscirono a superare gli indugi  frapposti dal trovarsi fino al 1970 su contrapposizioni ideologiche che bloccavano le riforme democratiche, con la conseguenza di dare  più compiuta convergenza ai principi autonomistici da far valere non solo negli ambiti delle 20 regioni, ma anche nella definizione degli indirizzi politici nazionali, alla cui determinazione Camera e Senato ebbero la possibilità di concorrere proprio perché il Senato alla fine del dibattito costituente si trovo configurato anch’esso come organo costituzionale non inficiato da quelle tendenze di marca soprattutto cattolica che (specie il giurista Mortati) miravano a superare l’idea del “popolo” come massa indifferenziata di “individui”, in favore di una concezione  come massa organizzata in gruppi: ritenendo agibile coerentemente una dicotomia del popolo e delle masse organizzate, da un lato in partiti politici da rappresentare nella Camera  e dall’altro lato in gruppi economici, sociali, professionali, territoriali da rappresentare al Senato.

Si è trattato di un  lavoro teorico-politico di notevole rilievo per gli obbiettivi vagheggiati dai cattolici già a partire  dalla Enciclica di fine 800, ma che, ora, più arditamente puntava a coniugarsi con la creazione delle Regioni come fondamento di un Senato formato sulla rappresentanza di categoria e territoriale. Ma le forze più democratiche che rifuggirono l’influenza che per  l’affermarsi di tali prospettive potevano esercitare gli istituti “corporativi” caduti col  apparivano frastornate da concezioni che si sarebbero eminentemente ispirate a concezioni neo-corporative di tipo “burocratico”, derivanti dall’immissione di istituti di derivazione sia regionale, sia provinciale che comunale, in una oscura tentazione di contrapporre la politica del decentramento amministrativo alla politica delle forze di dimensione nazionale, ponendo in improvvisa discussione i principi della Seconda parte della Costituzione sull’onda di tentativi di alterare il sistema politico a partire dalla fase in cui andava perdendo vigore l’antitesi segnata dalla illegittima clausola della c.d. “conventio ad excludendum”, con conseguenze su un nuovo tipo di assetti/o politico condizionato dalla doppiezza anche costituzionale del partito socialista dalla fine degli anni 70 in  poi.

E’ noto infatti, il rimescolamento di principi che ha preso sempre più corpo nel lungo succedersi di oltre 30 anni nel segno alquanto cavilloso delle “riforme istituzionali”, da quando cioè (con la firma di Napolitano), per la prima volta  il PCI si lasciò coinvolgere in un processo di revisione costituzionale, che fino agli anno 80 aveva recisamente rifiutato in nome dell’esigenza assolutamente preminente di “attuare” i principali principi di una Costituzione giunta ormai ad un primo trentennio, e tuttavia “bloccata” proprio a scapito dei suoi punti-cardine.

IN TAL SENSO è significativa la scelta del PCI di estraniarsi dalla relazione finale della Commissione Bozzi, a conferma della bontà dei comportamenti mantenuti rigorosamente in tutto il periodo precedente  il 1985: e tanto più va rimarcato soprattutto in questa sede, come il PCI abbia ribadito la preferenza per un Parlamento “monocamerale” già prospettato in Assemblea Costituente: poiché il “bicameralismo perfetto” è un retaggio storico degli ordinamenti britannico,statunitense,francese, che anziché rafforzare una rappresentanza politica in quanto viene sdoppiata, esalta lo  strapotere degli apparati centrali dei partiti, attenuando il confronto tra Parlamento e governo a carico di entrambi, facilita il giustapporsi di ostruzionismi di maggioranza e di minoranza si dà appesantire il processo decisionale.

Anche in tale occasione, tuttavia la tesi del monocameralismo non è passata, sia avanzando la tesi – destinata a divenire di moda – della c.d. “camera delle regioni”, sia proponendo la suddivisione della funzione di “indirizzo politico” nell’ambito della prima Camera con relativa pienezza della funzione legislativa, sia avanzando la tesi di incentrare sulla seconda camera funzioni di “proposta” e di “emendamento” oltre a specifiche funzioni di “controllo”(nomine, inchieste, controlli di gestione, controlli di merito delle leggi regionali, ben oltre comunque le forme tradizionali di controllo ispettivo).  Vero è, infatti, che tutte le schermaglie si sono addensate sul mutamento della forma di governo, nonché sui caratteri di una nuova legge elettorale, scivolando, da una Commissione all’altra (D’Alema, De Mita, Jotti), sino alla revisione del Titolo V con la legge di revisione del 2001 ispirata dal centrosinistra (e confermata dal referendum popolare) e infine al progetto di revisione costituzionale di iniziativa del governo Berlusconi (approvato nel novembre 2005) ma bocciato dal referendum del giugno 2006

L’abolizione del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari grimaldelli per un generale sconvolgimento degli assetti di potere sorti dalla Resistenza e sanciti dalla Costituzione

Tutto ciò andava rapidamente riassunto, per meglio segnalare  il tipo di progressivo accanimento da cui la Costituzione è stata coinvolta per destrutturare la forma di stato e la forma di governo , a partire dall’abolizione del bicameralismo paritario e dalla riduzione del numero dei parlamentari, intesi come grimaldelli necessari a provocare il più generale sconvolgimento degli assetti di potere, perseguiti dal presidente del consiglio oggi in carica con l’avvallo preventivo del capo del centrodestra, emarginato dalla vita civile e politica, ma sorretto in forme ondeggianti dal residuo di rapporti con i gruppi di potere che si sono venuti formando in un quadro di crisi striscianti, che dal 2011 ad oggi stanno incidendo pericolosamente sul sistema politico e costituzionale, attraverso manovre ispirate dalle commissioni europee e gravitanti sul nostro ordinamento, facilitando lo sfarinarsi e il ricostituirsi di gruppi di potere aspiranti a porsi come quadro di una classe dirigente alla spasmodica ricerca di un riconoscimento, in Italia e all’estero.

Non sono infatti comprensibili appieno le manovre in corso sotto le spinte di un “capo” emerso  nei flutti della politica “volontaristica” con cui è maturata la candidatura dell’ex presidente della provincia di Firenze attorniato dai suoi sodali, se non si rianalizzano gli eventi che con gran rapidità hanno visto il Capo dello stato farsi portatore della creazione del governo Monti prima, e del governo Letta poi, attraverso passaggi cosi imprevedibili e inediti – ai limiti, se non ed anche fuori dalla Costituzione – a copertura del fallimento dell’obbiettivo di riportare in auge Prodi a  nome del PD: ciò che ha costretto Giorgio Napolitano a giocare a carte scoperte, rivendicando la legittimità della seconda candidatura a Capo dello stato su cui vi è sempre stata incertezza, per poi scatenarsi in un protagonismo ancor più imprevedibile ed eclatante, volto a trasfigurarlo in un ruolo che ha precedenti solo in ordinamenti di tipo africano/asiatico, ove è latitante ogni minima visione di rispetto degli equilibri più elementari delle regole di convivenza.  Si è trattato di una ventata, operata tramite l’insediamento di giuristi ed altri “esperti”col compito di segnare il tracciato di un impegno costituente, antesignano di un singolare ruolo di costituente del Capo dello Stato, decisamente assurto a protagonista responsabile in prima persona della manipolazione sia della Costituzione che della stessa legge elettorale,  assecondato dall’incombere della Corte costituzionale, investita del giudizio di legittimità della legge elettorale c.d. “porcellum” da un gruppo di elettori menomati nei loro diritti, di non essere sopraffatti da norme attributive di forza eccedente ai voti di coalizione al di sotto del 50% dei consensi necessari in democrazia a consegnare il governo della Repubblica in modo rispettoso della sovranità popolare e non ad una o più forze incapaci di acquisire persino il 30-40 % dei consensi.

Dalla nomina “motu proprio” dei fantomatici “saggi” ha cosi potuto ricevere un avallo da nessun organo della Repubblica autorizzato, in vista del conferimento di “più poteri” al premier,  a partire dal ruolo da assegnare al Senato una volta deciso di sottrarlo a tutte le implicazioni del “bicameralismo paritario” esecrate in nome della celerità delle procedure parlamentari, con la conseguenza che riemergono le  questioni superate alla Costituente e volte a ridurre il Senato ad un interlocutore di diminuita incisività  “politica” nel sistema di governo, per trasformarlo in meccanismo di raccolta dei burocratismi regionali e locali, entro i rapporti già modificati e tuttavia da perfezionare contenuti nel Titolo V sui rapporti complessivi tra stato e Regioni.

Si fanno riemergere questioni già superate alla Costituente

Perciò le dispute in corso senza che si sia dato avvio ufficiale all’iter legislativo, una volta attribuita alla Camera dei deputati “in via esclusiva” la titolarità del “rapporto di fiducia” con il Governo e mantenendo al nuovo Senato la funzione legislativa,  quest’ultimo dovrebbe – ridenominato “Senato delle autonomie” – configurarsi come organo rappresentativo  delle  istituzioni locali, esercitando la funzione di raccordo tra lo Stato, le Regioni, le città metropolitane e i comuni.

Quanto alla struttura il Senato dovrebbe formarsi con i presidenti delle giunte regionali, dei sindaci dei comuni capoluogo di Regioni e Provincie autonome, con componente paritaria tra rappresentanti delle regioni e dei comuni e la durata del mandato dei Senatori dovrebbe coincidere con quella degli organi delle istituzioni nelle quali sono stati eletti. A proposito del procedimento legislativo il Senato potrebbe deliberare proposte di modifiche sui disegni di legge approvati dalla Camera dei deputati, che potrebbe superare il mancato accoglimento delle modificazioni proposte dal Senato “solo con una deliberazione  a maggioranza assoluta dei suoi componenti”.

Vano è attualmente l’addentrarsi in prospettive non solo ancora da determinare, ma tali da accentuare – di fronte all’ostentata sicumera dei “fedeli” del  neo-presidente del consiglio – una progressiva sordità e incomunicabilità che fanno a tutt’oggi risultare un’incognita le prospettive stesse di sopravvivenza del Senato, come lascia  presagire la puntualizzazione governativa sui contorni dell’intesa con Forza Italia delimitata dai punti-chiave della assemblea “non elettiva”, privata delle indennità, nonché del potere di fiducia politica e della legge di bilancio. Cosi come motivo di discordia rimane il problema dei 21 senatori nominabili dal Capo dello stato.

Iniziativa apodittica e destabilizzante

Come si può constatare, soprattutto alla luce dei sempre più assillanti problemi di politica internazionale nelle sue articolazioni politiche oltre la stessa UE, ed economico-sociali tutte  aperte a soluzioni sempre più incerte anche perché le stesse procedure sono incerte e manomesse senza garanzie di democraticità, da tutto questo risulta che la situazione del processo riformatore è fluttuante e DESTABILIZZANTE, come messo in luce da notisti che in questi giorni non hanno mancato di evidenziare il metodo scabroso imperante (si vedano, con varie sfumature, Bilancia, Ferrara, Deflores, Villone in Costituzionalismo it. 2014), nonché Azzariti su Il Manifesto, perché il disagio va dilatandosi, sia accentuando il peso delle critiche, sia suscitando anche qualche perplessità in fonti autorevoli, a vario tutolo entrate in campo vuoi per garantire la critica degli eventi in corso, vuoi per cercare più o meno indulgenti giustificazioni alle derive in corso.

Su “La Stampa” tra il n5 e l’8 scorsi si sono infatti succeduti alcuni brevi ma incisivi interventi che vale la pena di annotare, per la portata generale delle osservazioni destinate a riproporsi nello svolgersi degli eventi. Ha iniziato il costituzionalista Barbera, a suo tempo annoverato tra i comunisti c.d. “miglioristi” adepti di Napolitano e preoccupato che i “NO” al referendum confermativo del 2005 sulla riforma costituzionale di stampo berlusconiano risultassero troppi, come condanna dell’iniziativa revisionistica, per altro fallita: affermando apoditticamente di “non vedere cosa ci sia di autoritario nel progetto di riforma Renzi”, soggiungendo che “quattro costituzionalisti non so fino a che punto esprimano l’opinione  di circa 200 costituzionalisti italiani”. Proseguendo, il Barbera ha negato che l’appello di Rodotà e Zagrebelsky puntino correttamente contro le derive liberticide del governo, tanto più che non si tratta di una invenzione di Renzi, ma di un lavoro che “raccoglie proposte trite e ritrite fin dalla Commissione Bozzi, di cui ho fatto parte anch’io all’inizio degli anni 80, riprese anche dai 40 “saggi” nominati da Napolitano.

A sua volta su La Stampa del 6, rivolgeva una lettera a Rodotà e Zagrebelsky lo storico Gian Enrico Rusconi, colpito dal “vostro atteggiamento cosi negativo verso il governo Renzi, con il tono allarmato di chi vede una battaglia finale per la democrazia in pericolo”. “Renzi è arrivato dopo tanti fallimenti ed ‘è un grande dilettante, certo, e tutti vediamo i suoi limiti e i pericoli della situazione”: concludendo che “ non è evocando come spauracchio autoritarismo, decisionismo, craxismo o anche berlusconismo che si convince una generazione che si sente  presa in giro dalla politica e ha una gran voglia di cambiare” .

Passiamo rapidamente al 7, sempre su La Stampa, ed ecco Sandra Bonsanti, presidente di “Libertà e Giustizia” entrata in  campo nell’ottobre scorso ad una folta manifestazione, non solo per rilanciare l’appello preceduto dall’opuscolo di MarxVentuno, ma soprattutto per denunciare la disinformazione e i giudizi “fuorvianti” che alterano lo spirito e gli obbiettivi dell’appello: la Bonsanti cerca di calmare le acque, proclamando l’intento di “migliorare non affossare” le riforme: concludendo irrisoriamente che “il problema di Renzi è anzitutto ‘un modo di ragionare”. Si può ora scivolare su un tentativo di visone che vada oltre i destini del Senato, sopratutto mettendo il dito sulla piaga, perché “l’unico modo di mettersi in gioco per Renzi, sembra quello di dire si a Renzi: per cui se realizza le riforme sarà il riformatore interno, se non le realizzerà, si sarà creato un capro espiatorio, il nemico interno”.

L’incantesimo va ormai rompendosi, in forme apparentemente contraddittorie, perché a quella che in data 9 il Corsera annota come svolta “dolce” del leader di “Libertà e Giustizia” (dovuta anche a proteste contro una scarsa democrazia interna per una “svolta autoritaria dei vertici dell’associazione”) si aggiunge una nuova controproposta volta al dimezzamento dei deputati, a due senatori per regione con durata fissa e lunga con mancata rielezione, a cui fa eco sempre più consolidata la predisposizione di una convergenza tra un gruppo di senatori del PD con larga parte del M5*, suscettibile di trascinamento della stessa Forza Italia ad onta dei continui richiami al patto Renzi/Berlusconi.

repubbCosì come, dopo una lunga meditazione, sta preparandosi ad un intervento – all’ombra del 25 aprile – l’iniziativa dell’Anpi, istituzionalmente portatrice dei valori della Costituzione: ciò che riaprirebbe la discussione sulla legge elettorale c.d.”Italicum”, con cui il governo crede di aver dato copertura ad almeno uno dei due fronti che congiurano contro la libera partecipazione alle elezioni, insistendo nel mantenere in vita criteri maggioritari denunciati dalla sentenza della Corte in favore del ritorno alla proporzionale pura, dominante dal giorno della Liberazione per un quarantennio di sviluppo della democrazia.

 

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