“Ancora oggi, come durante il nazismo, si vuole pretendere di stabilire con chi coabitare, commettendo un crimine contro l’umanità.”
28gennaio 2018 da Stefano Romboli, direttivo Buongiorno Livorno
Lo ius soli in Italia sospeso e congelato, una nuova legge più restrittiva sul diritto di asilo in Francia, le continue invettive e offese di Trump contro i migranti e i paesi “poveri”, il candidato del centro destra alla Regione Lombardia Attilio Fontana che parla di “razza bianca da difendere”, barriere e ondate xenofobe ovunque, in primis in Ungheria, Polonia, Austria. L’ostilità ha stretto in una morsa l’Europa (e non solo). L’ospite, il migrante, è stato stigmatizzato a priori come nemico. Sta prevalendo la paura e il cinismo della sicurezza. Con l’aborto dell’accordo del 22 settembre 2015, l’Europa ha abdicato a una politica comune di accoglienza.
Gli egoismi e i sovranismi nazionali hanno prevalso e l’obiettivo di fermare i flussi migratori si è consolidato anche con l’accordo del 18 marzo 2016 con la Turchia.
In un periodo storico caratterizzato da esasperati nazionalisimi e ondate di mixofobia alimentate dai media e da chi ci campa politicamente, sentiamo sempre più invocare barriere, muri, centri di detenzione contro le presunte invasioni di migranti.
Ogni anno viene commemorato, giustamente, lo sterminio nei lager nazi-fascisti e raramente si coglie l’occasione per collegarci a quanto succede davanti ai nostri occhi da tempo.
Eppure esiste un filo che accomuna i campos de concentraciones, istituiti già nel 1896 dagli spagnoli a Cuba per reprimere la sollevazione popolare, oppure i concentration camps dove gli inglesi ammassarono i boeri sudafricani, ai lager nazisti, ai gulag sovietici, ai campi della Cina e della Corea del Nord, fino a quelli della ex Jugoslavia. Ed è lo stesso filo che lega quei campi agli attuali “centri” per gli stranieri, dove l’accoglienza diventa pretesto per l’internamento e dove protezione umanitaria e controllo di polizia finiscono per saldarsi.
Peculiarità del campo è la detenzione amministrativa e scopo primario è l’eliminazione in senso etimologico, dal latino eliminare ossia far uscire, mandar via, fuori dalla soglia, oltre il confine. Una eliminazione che può comprendere l’espulsione e anche l’annientamento fisico.
Già nel 1905 era stato promulgato in Inghilterra l’Alien Act, una legge dove per la prima volta trovava espressione, nelle politiche migratorie, il principio che fosse lecito fermare gli stranieri ai confini e filtrarli. Qualcosa di simile già succedeva negli Stati Uniti con il centro di Ellis Island (ribattezzata dai migranti “l’ isola delle lacrime”).
Hannah Arendt evidenziava come i lager nazisti non costituissero un’ “invenzione totalitaria”: sorti prima del totalitarismo, sarebbero rimasti nelle democrazie per offrire soluzioni sbrigative.
La concezione del radicamento al suolo che trova sempre più spazio, oggi, è un lascito diretto dell’hitlerismo che non a caso, nelle sue nuove versioni del terzo millennio, più che sul sangue insiste sul suolo. “Ognuno a casa propria!” “Fuori da casa mia!”. Il nazismo è stato il primo progetto di rimodellamento biopolitico del pianeta che imponeva criteri e modi della coabitazione. Tanto da arrivare a decidere che un intero popolo, il popolo ebraico, non avrebbe dovuto più abitare sul pianeta.
Nell’epoca postnazista è rimasta salda l’idea che sia legittimo decidere con chi coabitare.
Il neorazzista predica il respingimento, invoca i rimpatri, racconta di invasioni e sostiene di combattere il “business dell’immigrazione” ma in realtà è proprio l’immigrazione che non tollera.
Sarebbe utile e importante se le doverose commemorazioni del Giorno della Memoria si soffermassero di più e meglio sul collegamento fra i campi di sterminio nazista e le nostre cronache quotidiane. Nel celebre “La banalità del male” Arendt considera un errore giudicare le misure prese contro gli ebrei solo come il prodotto dell’antisemitismo. La “soluzione finale” sarebbe solo l’ultima tappa di una politica dell’emigrazione che avrebbe dovuto bonificare la Germania.
Nel tentativo di cogliere la peculiarità dello sterminio nazista che altrimenti potrebbe apparire solo come il più orribile pogrom della storia ebraica, nella ricerca del filo che lega espulsioni e camere a gas, Arendt imprime una svolta politica al tema dell’abitare che diventa anche quello del coabitare.
Ecco il crimine in tutta la sua abissale mostruosità: aver preteso di stabilire con chi coabitare!
Il presupposto stesso del genocidio, il preludio per le officine hitleriane della morte puntava all’omogeneità etnica e colpiva perciò tutti i “diversi”. Disabili, malati, omosessuali, dissidenti, comunisti, rom e sinti, ebrei. In sintesi, chi con la stessa esistenza metteva rischio l’omogeneità e l’identità della nazione avrebbe dovuto essere eliminato. La privazione dei diritti umani si manifesta soprattutto nella mancanza di un posto nel mondo. Arendt vede una continuità con lo Stato-nazione e insiste sul nesso fra espulsioni e sterminio.
Quello che accade oggi, quindi, era prevedibile per Arendt, con un crescente mescolamento dei popoli all’interno degli Stati-nazione e con le sempre maggiori disuguaglianze, frutto delle scelte e della natura del capitalismo.
Coabitare la terra impone l’obbligo permanente e irreversibile di coesistere con tutti coloro che, più o meno estranei, più o meno eterogenei, sulla terra hanno uguali diritti. Si può scegliere con chi convivere, con chi dividere il proprio tetto o il proprio vicinato, ma non si può scegliere con chi coabitare. In tal senso la coabitazione, quell’essere-con al fondo di ogni vincolo, che caratterizza l’esistenza umana, precede ogni decisione politica che, a meno di non avviarsi verso una discesa rischiosa, non può non salvaguadarla.
Ecco perchè invitiamo a riflettere su questi temi, per contribuire a non cristallizzare la tragedia nazista in quel preciso momento storico e per confrontarci con la nostra attualità. Perchè il passato può sempre tornare e anzi, sotto altre sembianze, si annida già presso le nostre società e le nostre esistenze.
Letture consigliate:
- “Stranieri Residenti – Una filosofia della migrazione” di Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri, 2017).
- “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” di Hannah Arendt (1963).