settembre 2014 di Alberto Prunetti,
che ci ha consentito la pubblicazione di questo estratto, di ambientazione pisornese, del suo nuovo libro “AMIANTO Una storia operaia”, Roma, Alegre 2014, pp. 192, euro 14 http://ilmegafonoquotidiano.it/libri/amianto.
Questa è la storia di un uomo che si chiamava come me ed era nato nel giorno in cui io sono nato, eppure non sono io. È un racconto che comincia con una canzone di Nada e finisce come una storia di metallo pesante. È il 1969, siamo alla fine dei “favolosi” anni sessanta e al Cardellino di Castiglioncello, in provincia di Livorno, Nada Malanima, reduce dal festival di Sanremo, ha appena cantato Ma che freddo fa.
Un paparazzo livornese, conosciuto col soprannome di “Nick Vampata” per la potenza del flash alogeno, la fotografa circondata da ammiratori e camerieri. Accanto a lei c’è un ragazzo. È il cameriere più alto, è magro e assomiglia vagamente a Jean-Paul Belmondo. Nada ha sedici anni, lui ventiquattro. Lui è Renato, il protagonista di questa storia che comincia con la colonna sonora degli anni sessanta e finisce con una vittima uccisa lentamente. Se fosse un noir, sarebbe uno di quelli in cui si capisce subito il nome dell’assassino.
Una storia di “omicidi bianchi”, con un colpevole circondato da indizi e tanti complici che negano ogni responsabilità. Senza lieto fine: la minaccia è ancora attorno a noi, libera, un killer silenzioso protetto da una legione di medici, ingegneri, consulenti, industriali.
Questa storia comincio a raccontarla controvoglia. Volevo anzi dimenticarla, come se l’oblio fosse l’unico modo per elaborare il lutto: niente visite al cimitero, niente ricordi, niente più ospedale, niente letto terminale nel salotto di casa. Ma poi è ricomparsa questa fotografia che non pensavo esistesse davvero. A questa foto di Renato e Nada Malanima, perduta in qualche scatola di cartone in un archivio fotografico, io non avevo mai creduto. Lui lo raccontava e tutti giù a ridere. Sì, sì, gli dicevamo ogni volta che, svuotato il bicchiere di rosso, lui tornava a vantarsene. Fatto sta che un anno dopo che ci ha lasciato, telefona suo fratello: “Comprate il giornale che c’è la foto di Renato con Nada”.
Sicché, dé, di volata in edicola, apro “Il Tirreno” e la vedo. Era vero. Sua moglie, Francesca, inizia a piangere, a dire quant’era bello… e comincia a raccontare.
Uno non può neanche provare a lasciarsi ingoiare dal buio della memoria, dal tempo che come dicono risana le ferite, che neanche due giorni dopo la pubblicazione della foto con Nada sul giornale ci arriva una lettera del patronato: stavano per scadere i termini per il riconoscimento dell’esposizione professionale all’amianto, che lui aveva provato inutilmente a ottenere prima della malattia. Che si fa? Lui voleva andare avanti. Però bisogna ricostruire il suo curriculum e per uno che nella vita ha solo e sempre lavorato e che ha identificato se stesso con il proprio mestiere di metalmeccanico, significa ricostruire la sua stessa vita, la sua biografia operaia.
Poi è arrivato anche il sogno. Non era la prima volta che mi appariva in sogno ma stavolta era diverso. Immagino che alla gente “bennata” – i pargoli dei ceti abbienti – i morti tornino in sogno per risolvere conflitti edipici o altri imbarazzi esistenziali, oppure per svelare il luogo in cui è nascosta la gioielleria di famiglia. A me il morto si ripresentò come se dovessi fare la revisione della macchina. La mia automobile è infatti la sua, una vecchia Audi 80 del 1990, che io tratto con disinteresse negli aspetti di pulizia degli interni ma a cui garantisco una regolare e attenta manutenzione. Sono in grado anche di cambiare le parti usurate, per quanto sia difficile trovare pezzi originali o sostituti compatibili anche dai ricambisti più sgamati. In ogni caso, nonostante la carrozzeria stia subendo gli insulti del tempo, il motore va che è una meraviglia: non mi ha mai lasciato a piedi, funziona anche senz’olio, con la benzina sporca o con solo tre cilindri (succede quando le candele sono sudice e non innescano tutti i pistoni). Secondo il mio meccanico l’auto mi vincerà per noia. Solo una volta ha provato a fermarsi dalle parti di Ribolla, nel grossetano più agro, perché la pompa della benzina si rifiutava di funzionare, ma un contadino sceso dal trattore per soccorrermi mi spiegò che in queste macchine la pompa cede se si surriscalda: ovviamente va cambiata, ma se vuoi tornare a casa, ogni volta che si ferma basta che ci sputi sopra, mi disse. Ci provò lui e non ripartì nonostante un paio di catarri filamentosi. Allora bestemmiò, si infilò nel fosso al margine dell’asfalto e ne rispuntò con una bella zolla d’erba umida. Fece un impacco di biadoni selvatici alla pompa della benzina e lo lasciò lì per un minuto. Poi ordinò perentorio: “Gira la chiave”. La macchina si mise in moto e mi riportò fino all’officina. Capirete che un’automobile così vale oro, altro che euro zero.
Il problema è che va a benzina e il costo del petrolio mi sta inducendo a rottamarla: per metterla a metano, con i suoi trecentomila chilometri, è forse troppo tardi. Comunque, presentata l’automobile che fu di Renato e che per regolare passaggio di proprietà è diventata mia, ecco il sogno in cui lui mi apparve. Diceva: “Mi raccomando i rabbocchi… quando fa freddo mettici l’antigelo al liquido… l’olio, ricordati di cambià anche il filtro e quando rabbocchi stai sotto al massimo… li hai fatti novantamila chilometri? Devi cambià la cinghia di trasmissione… controlla anche quella dell’alternatore, che a forza di girà tra le pulegge tende a sfilacciarsi… se si rompe la cinghia dell’alternatore non si ricarica la batteria e poi devi andà a spende soldi dall’elettrauto… una volta la cinghia si ruppe anche a me ma io al su’ posto ci misi un calzino e feci altri cento chilometri… io l’avevo fatta cambià, ma ’un si sa mai… a proposito, la batteria… ricordati di staccà i morsetti quando te ne vai in culo al mondo a fa i tu’ giri e se c’è un po’ di schiumetta bianca, primo vole di’ che sei un brodo, secondo vedici di passarci la spazzola con le setole di bronzo per toglie’ l’ossido…e ogni tanto rabbocca gli elementi con l’acqua demineralizzata… il filtro dell’aria in che condizioni è? Te che vai sempre in campagna… d’estate la polvere è un problema… dai uno sguardo al liquido dei freni… controlla le candele, gli elettrodi so’ usurati? Ci so’ tracce d’olio? Dalle candele si capisce se un motore carbura bene… in ogni caso ogni tanto bisognerebbe sgrassarle con un po’ di benzina, solo che voi giovani ’un ciavete voglia di fa’ ’na sega…”
Era un po’ un discorso di questo tipo. Avrei dovuto appuntarmi tutti i numeri che diceva (perché il sogno era molto più dettagliato, mi dava il voltaggio della batteria, il codice del filtro della benzina, mi indicava i chilometraggi massimi per la sostituzione dei pezzi rovinati) e giocarmeli al lotto. Io invece ho buttato i soldi in ricambi, l’auto oggi cammina ancora e il meccanico mi ha detto che ancora un po’ e si sarebbe rotta la cinghia dell’albero di trasmissione, con conseguenze funeste sul motore. Quindi per quanto non creda alle visioni metafisiche, il sogno è stato provvidenziale.
A questo punto gli indizi erano tre: foto, lettera e sogno e non andavano presi sottogamba. Bisognava raccogliere le idee, dare battaglia sul fronte dell’amianto, rintracciare colleghi, riunire memorie, ricostruire il curriculum lavorativo.