Lo dicono a più riprese, lo dicono tutti i giovani uscendo dal campo di Birkenau o dal museo di Auschwitz.
24gennaio 2019 da Walter Fortini, Firenze
Aver studiato sui libri il sistema dell’orrore, per quanto in modo approfondito, non è stato come averlo visto con gli occhi, averlo sentito addosso, averlo vissuto. Erano preparati certo, perché durante i due anni di studio i prof li hanno avvertiti che sarebbe stata un’esperienza dura, sia dal punto di vista fisico che mentale. Ma non pensavano così terribile.
Il filo spinato ghiacciato, Eden Donitza, quinta liceo scientifico Ulisse Dini di Pisa, non ha potuto toglierselo dalla testa, e si è addormentata pensando a quell’immagine. Il freddo indescrivibile, i lunghi binari, Eden non li dimenticherà mai.
“Posso dire che se una cosa non la vedi con i tuoi occhi non la puoi capire fino in fondo – dice Lavinia Vestri, quarto anno dell’Istituto Tecnico Redi di Montepulciano (SI) – Per tutti questi anni abbiamo studiato la Shoah e le atrocità che hanno colpito gli ebrei, però non avevamo capito davvero cosa volesse dire il campo di concentramento finchè non l’abbiamo visto”.
Le suppellettili e le scodelle che i deportati si erano portati da casa pensando che fossero utili. Lavinia non riesce a scordare quelle.
“Ho pensato alle loro speranze – racconta – di poter mangiare o di poter trascorrere quel tempo con un piccolo pezzo di casa, qualcosa di familiare. E invece è stato tutto annientato”.
L’hanno colpita anche i disegni che le madri avevano fatto per i loro bambini per rassicurarli un po’.
“Ho pensato all’amore e alo strazio di una mamma che ha potuto solo questo per i propri figli: dare loro un disegno, non la salvezza”.
“Mi sono resa conto – aggiunge Giulia Pasqualoni anche lei del quarto anno del Redi di Montepulciano – di quanto siano importanti tante cose che noi abbiamo la fortuna di avere e che diamo per scontate: una casa calda, vestiti adeguati, cibo. Uscendo dal campo ho capito quanto valgono per chi non li ha”.
“Questa esperienza rimane nel cuore e nella testa per sempre – osserva Luisa Xu, ultimo anno dell’Istituto Dagomari di Prato – Provo dolore dopo quello che ho visto e che ho voluto vedere perché questo viaggio l’ho voluto molto. Come potevano, penso, essere felici e provare piacere nel torturare e uccidere in questo modo altri esseri umani. Mi rimmarà nel cuore un’altra cosa, la preghiera ebraica cantata nel gelo di Birkenau. Sentirla in quel luogo è stato indimenticabile”.
“A casa mi porterò tanta conoscenza in più, tanti ricordi – dice Nancy Bogdan, quarto anno del Gramsci Keynes di Prato – ma anche tanta tristezza per quello che ha vissuto il mio popolo sinti”.
L’auspicio degli insegnanti che hanno lavorato con gli studenti per un anno e più per prepararli al viaggio della memoria, è che questa esperienza per quanto forte e perfino scioccante, non resti confinata nella conoscenza, ma diventi azione.
“Questo progetto ha una valenza educativa altissima – riflette Annalisa Mistichelli, prof dell’Isituto Dagomari di Prato – e la storia va riletta. E’ quindi importante che come scuola e istituzioni si trasferisca la curiosità verso l’impegno quotidiano. Sicuramente quando tornerò a casa creerò una rete tra i giovani di tutte le scuole perché non smettano di pensare, di rielaborare e tradurre in azione ciò che hanno pensato. Dobbiamo riumanizzare la storia perché non sia una lezione sterile, ma aiuti i ragazzi a essere protagonisti nuovi della storia, consapevoli, capaci di rispetto, di solidarietà, amanti della libertà”.
Il viaggio è finito, anzi no: la memoria è un impegno che prosegue
L’abbraccio nella piazza Santo Stefano nel centro di Cracovia prima di partire, Ugo Caffaz, anima ed ideatore del treno della memoria toscano, che si commuove al ricordo dei bambini deportati ed uccisi nonostante gli undici viaggi della memoria sulle spalle dal 2002 ed un altro con Primo Levi nel 1982. Ci dovrebbe essere abituato, eppure ogni volta il dolore è troppo grande.
Poi i ragazzi che appena sopra il treno riprendono a fare la spola verso la carrozza delle sorelle Bucci per l’ultima domanda, avanti e indietro, anche solo per un abbraccio, per una parola, una carezza, l’autografo sul libro o una foto: la sera e poi di nuovo la mattina, quando il convoglio lungo più di mezzo chilometro e sedici vagoni si risveglia in mezzo alla neve austriaca.
Le emozioni sul treno della memoria dei cinquecento e passa studenti toscani proseguono anche nel viaggio di ritorno. Riprendono pure i seminari: la sera appena partiti con le comunità ebraiche, l’indomani sui neofascismi contemporanei, la persecuzione degli omosessuali, gli internati militari, i rom e sinti e gli oppositori politici perseguitati.
- C’è tempo per riavvolgere il nastro di ricordi e per parlare.
- C’è tempo, nonostante la stanchezza, per approfondire, per raccogliere appunti da raccontare poi a chi è rimasto a scuola, per riannodare a volte spezzoni di storie familiari, del bisnonno di una ragazza ad esempio, militare, che disse no alla Repubblica di Salò e per questo fu deportato, di ebrei esclusi, di rom che vivono ancora i pregiudizi sulla loro pelle. Ai tavoli all’ingresso di una carrozza alcuni ragazzi e ragazze si interrogano su come si dice cosa in ebreo, in sinto o o nella lingua dei rom.
- C’è tempo ringraziare i professori, senza il cui lavoro incredibile il viaggio sarebbe diverso, o per ripensare alle storie di quei particolari ‘compagni di viaggio’, presenti solo in spirito, che sono i deportati rappresentati dai nomi affidati a ciascun ragazzo e ragazza prima della partenza.
Poi il treno, con qualche ritardo dovuto ad un locomotore da sostituire, arriva poco dopo le sei e e mezzo di sera a Firenze, dopo ventiquattro ora di marcia e soste. Il viaggio è finito, anche se qualcuno ha ancora un po’ di chilometri prima di arrivare a casa. Ma l’impegno prosegue e domani per ciascuno ci sarà il compito più difficile: “raccontarlo a mia nipote” come ha scritto qualcuno al termine di una delle passate edizioni. Oppure raccontarlo semplicemente agli amici e compagni di classe.