Il governo greco guidato da Syriza ha deciso di indire per il 5 luglio un referendum popolare per sottoporre ai propri cittadini il quesito sull’accettazione o meno della proposta/ultimatum avanzato dalla Troika per il rinnovo degli aiuti che, è bene sottolinearlo, la Grecia non riceve più dall’agosto 2014
29giugno 2015 da Sinistra in Europa
La decisione del Premier Alexis Tsipras ha letteralmente mandato in corto circuito i vertici dell’Eurogruppo, che hanno annunciato la conclusione unilaterale delle trattative, facendo diventare de facto il referendum greco una consultazione sulla permanenza stessa della Grecia nell’Eurozona, dal momento che la proposta stessa oggetto della consultazione non sembrerebbe più sul tavolo. La linea rossa fissata da Syriza come limite invalicabile nelle trattative è stata sistematicamente oltrepassata in tutte le proposte avanzate dalle istituzioni europee, nonostante le pur significative concessioni avanzate dal governo greco nel serrato braccio di ferro di questi mesi.
Colpisce in primis l’approccio ultraideologico di Bruxelles, che ha bocciato la proposta di Tsipras di applicare una tassa una tantum del 12% sulle imprese greche che fatturano oltre 500.000 euro volendo sostituire con questa l’aumento della tassazione generale che il memorandum vorrebbe innalzata al 29% mentre per il governo greco si potrebbe arrivare al 26-28%, mantenendo al contempo i sussidi per la benzina per gli agricoltori, settore centrale dell’economia ellenica dilaniato dalla crisi.Il netto contabile tra le due proposte è pari a zero, ma questo a Bruxelles non interessa.
Altro punto insormontabile per Tsipras era rappresentato dalla recente reintroduzione della contrattazione collettiva, vista come fumo negli occhi da Bruxelles che ne pretende l’immediata nuova abolizione (del resto era stato proprio il precedente governo Saramas a eliminarle su dettame dello stesso Memorandum). Peccato che la stessa Germania così come la stragrande maggioranza dei paese dell’Eurozona, abbiano una contrattazione collettiva intensissima.
Tra queste farà parziale eccezione l’Italia, che con il recente Jobs Act si avvia verso una graduale estensione della contrattazione decentrata.
Altro punto su cui non si è trovato l’accordo è quello riguardante le prestazioni pensionistiche minime, che in Grecia oggi sono fissate a 445 euro. Il governo greco ha accettato la richiesta europea di innalzare l’età pensionabile a 67 anni entro il 2022, ma vuole congiuntamente avviare un programma di sostegno delle pensioni minime, i cui fondi sarebbero reperiti tramite un incremento dei versamenti contributivi da parte dei datori di lavoro, che si attestano oggi ad un livello che è quasi la metà della media UE. Bisogna inoltre tener presente il fatto che il sistema del welfare greco è quasi totalmente sprovvisto di altre forme di sussidio pubblico (alloggio, disoccupazione, indennità non sono pervenute), pertanto la dimensione pensionistica svolge anche una funzione suppletiva a tutto ciò.
Il problema più generale della sostenibilità della spesa pubblica, spauracchio per la tenuta della stessa Eurozona, sembra un dogma che contrasta con la realtà dei numeri, sempre che si abbia voglia di leggerli in chiave non propagandistica: La Grecia ha una spesa pubblica primaria (cioè al netto degli interessi sul debito pubblico) pari al 42.9% del PIL, addirittura inferiore a quella tedesca che si attestai al 43,24%. Tutto questo in un contesto di continua e drammatica erosione del PIL nazionale (e trattandosi di un rapporto può dare l’idea della mattanza sociale che si è perpetrata in questi anni), mentre quello tedesco è stato uno dei pochissimi (diciamo anche l’unico) Prodotto Interno Lordo a crescere costantemente nel contesto di crisi (centrerà forse qualcosa il fatto che lo statuto della BCE è stato sostanzialmente “copiato” da quello della Banca Centrale tedesca?).
Il vero problema della Grecia è tuttavia il ben noto fardello degli interessi sul debito, ma questo, nonostante la sistematica attuazione delle direttive comunitarie, nel periodo 2000-2013 è diventato sempre più insostenibile: al 2013 il rapporto debito/PIL è arrivato al 175,1%, mentre nel 2000 superava di poco il 103%. (in Italia, per la cronaca, siamo passati dal 103,4 al 132,6%, mentre la media europea è salita nel periodo in questione dal 61,8 all’87.4). Agli stregoni di Bruxelles è quindi riuscito il capolavoro: rendere complessivamente più insostenibile il debito pubblico della maggior parte dei paesi europei, senza aver al contempo neanche abbozzato una politica anti-ciclica per uscire dalla crisi.
La proposta di Syriza, che rimane valida fino al 5 luglio, data del referendum, è quella di introdurre i primi provvedimenti anticiclici pur nel rispetto formale dei parametri europei (che sono comunque nella sostanza saltati, e non certo per responsabilità di Tsipras e soci quanto piuttosto della follia ideologica monetarista che ha pervaso la costruzione dell’unione monetaria).
La rinegoziazione collettiva del debito europeo, che sarebbe il vero passo da attuare per salvare l’Eurozona dal collasso, appare in questo contesto un traguardo lontanissimo.
Il referendum, ultimo atto di coraggio di un governo che ha messo sul tavolo negoziale null’altro che la dignità di una popolazione ridotta allo stremo anche per responsabilità di quegli tessi governanti ampiamente foraggiati da Bruxelles sotto elezioni (Nea Demokratia e PASOK in testa), sarà in ogni caso una sconfitta per tutta l’Europa: in caso di vittoria del “sì” il governo Tsipras molto probabilmente si dimetterà lasciando ad altri il compito di attuare il “compitino a casa”, delineando scenari cupissimi per la tenuta democratica di tutta l’Europa, e consegnando alle emergenti destre nazionaliste di tutto il continente il ruolo di referenti unici del malcontento sociale.
Qualora dovesse affermarsi il “no”, l’Eurogruppo probabilmente avvierà la procedura di “grexit”, che sancirebbe su carta l’irriformabilità democratica di un progetto europeo che sta calpestando senza pudore i valori contenuti nel “Manifesto di Ventotene”.
L’Europa monetaria rischierebbe in entrambi i casi di mostrarsi spietatamente non come la prima tappa (mai superata) dell’unione politica europea, ma come uno strumento atto unicamente ad attuare con violenza un ben predefinito disegno di ristrutturazione neoliberista.