Le vere difficoltà per Alexis Tsipras iniziano adesso. La sua vittoria da sola non basta e il suo programma sarà seriamente messo alla prova dalla realtà politica
31gennaio 2015 da sbilanciamoci
L’importante vittoria di Syriza nelle elezioni greche di domenica scorsa arriva con quasi sei anni di ritardo, anni nei quali i vari governi “tecnici” o “di unità nazionale” sono stati lo strumento per scaricare i costi del “salvataggio” della Trojka sulla popolazione. Le vere difficoltà per Alexis Tsipras, però, iniziano adesso. La sua vittoria da sola non basta a risolvere i problemi del paese e il suo programma sarà seriamente messo alla prova dalla realtà politica, economica ed istituzionale.
La posizione ufficiale di Syriza, al momento, è di “non intraprendere azioni unilaterali”. Questo vuol dire che non straccerà gli accordi presi, non farà default unilaterale sul debito, non uscirà dalla moneta unica. Gli organi dirigenti del partito hanno deciso di chiedere una “conferenza europea sul debito” nella quale negoziare con i creditori esteri, ormai principalmente istituzionali, un condono del debito esistente, che valga probabilmente anche per altri: in primis Spagna e Portogallo.
Come notato recentemente dal Financial Times, non si tratta di un’idea molto radicale, tanto che è stata proposta da quasi ogni economista mainstream . Come tante altre proposte ragionevoli circolate in questi anni, anche quest’ultima avrà poche possibilità di successo, considerando che dall’altro lato del tavolo ci saranno i paesi creditori, Germania, Francia e Olanda in testa, ma anche la Commissione europea, la BCE, il FMI.
Il Ministro delle Finanze tedesco, ha già fatto sapere che Tsipras non ha altra scelta che non sia rispettare gli impegni e gli accordi del precedente governo. Se la posizione dei creditori rimarrà questa, ben presto il nuovo governo greco si troverà ad un bivio: mantenere la via cooperativa e quindi rivedere drasticamente al ribasso le proprie ambizioni in quanto a condono del debito e rovesciamento dell’austerità, oppure abbandonarla e intraprendere azioni unilaterali.
In campagna elettorale, Syriza ha affermato di volere un condono del debito pubblico che potrebbe arrivare anche al 50% dello stock esistente. Nell’improbabile scenario di una decisione concordata, implicherebbe una riduzione del debito dal 180% al 90% del PIL. Si tratterebbe di un default importante, ma lascerebbe comunque una mole di debito difficilmente sostenibile in assenza di crescita economica sostenuta. Oltretutto, una volta concordato il default parziale, la Grecia dovrebbe continuare a rispettare la governance economica europea e il fiscal compact. Sarebbe quindi da escludere una scossa in senso espansivo della politica fiscale a seguito di una ristrutturazione del debito.
Le nuove linee guida su un’interpretazione cosiddetta flessibile del Patto di stabilità e crescita, recentemente pubblicate dalla Commissione, possono abbonare al massimo qualche decimo di punto di deficit. Faranno guadagnare tempo (poco) a paesi comunque vicini al rispetto dei vincoli (come Italia, Belgio e Francia), ma sono assolutamente irrilevanti nel caso della Grecia. Un discorso simile vale per il programma di quantitative easing lanciato dalla BCE. Con il 2% del capitale della BCE sottoscritto dalla Banca Nazionale greca, solo il 2% degli acquisti riguarderà il debito pubblico greco. Quindi, se anche metà del debito venisse condonato, in base all’assetto istituzionale attuale, le prospettive di crescita per la Grecia non sarebbero molto maggiori rispetto a quelle odierne.
Ma anche immaginando che una maggiore spesa pubblica fosse possibile, magari nel quadro di una rinnovata governance economica europea, questa aumenterebbe il reddito disponibile, quindi (coi cambi fissi) anche il rapporto fra importazioni ed esportazioni, e quindi – a sua volta – il debito estero del paese. In altre parole, pur ripartendo da una situazione più favorevole, si ricostituirebbero quelle dinamiche che hanno contribuito a portare il paese nella crisi attuale.
A fronte di queste considerazioni, il secondo tipo di azione – la ristrutturazione ‘unilaterale’ -potrebbe comportare di fatto l’uscita dall’unione monetaria. Tsipras si è sempre prodigato nei mesi scorsi per scongiurare questa ipotesi, spiegando che il suo partito non ha assolutamente intenzione di portare la Grecia fuori dall’euro. Tuttavia alcuni esponenti di spicco di Syriza, l’economista Costas Lapavitsas in primis, già dal 2010-2011 avevano sostenuto che l’uscita dall’euro fosse l’unica soluzione per evitare il disastro. Avendo raggiunto un avanzo primario, la possibilità ora è credibile.
Un’uscita dalla moneta unica permetterebbe alla Grecia di completare quell’aggiustamento della bilancia commerciale che ha finora tentato a colpi di austerità e compressione dei redditi. Il mercato dei cambi lascerebbe la moneta nazionale deprezzarsi, e secondo il rapporto speciale di Moody del 14 Gennaio scorso nel medio-lungo termine, in seguito ad un’uscita dall’euro, la crescita in Grecia sarebbe superiore a quella negli altri paesi della zona euro, innescando anche in questi ultimi discussioni in merito all’opportunità di uscire.
Rimarrebbe l’incognita della tenuta del sistema bancario, tenuto ora in vinta dalla liquidità di emergenza fornita dalla BCE. La grossa differenza, però, rispetto all’uscita che poteva avvenire qualche anno fa, è che oggi più dell’80% del debito pubblico greco, rifinanziato in questi anni di aiuti della troika, è ormai emesso sotto legislazione internazionale e non più nazionale. In altre parole, rimarrebbe prezzato in euro e quindi insostenibile, necessitando un default totale. È anche per questo che molti creditori istituzionali stanno abbassando i toni e potrebbero essere pronti a negoziare con Syriza.
In conclusione, Alexis Tsipras in campagna elettorale ha fatto promesse moderate all’estero (escludendo categoricamente azioni unilaterali) e progressiste a casa (basta austerià , condono del debito e nuove politiche espansive di sostegno dei redditi), che non sono compatibili fra loro. Se manterrà le prime, sarà costretto a tradire il proprio elettorato, applicando ricette imposte dall’esterno e condannandosi ad una progressiva ma inesorabile erosione del consenso. Se invece vorrà mantenere gli impegni presi con gli elettori, dovrà spingersi fin dove ha finora detto di non voler andare. Il vero problema politico adesso sarà decidere chi tradire.