Sulle pareti coperte di graffiti è rimasta l’insegna della vecchia fabbrica tessile, la Tocome, nata nel 1949.
9aprile 2015 Di Geraldina Colotti, Caracas
Il cuore della produzione, oggi pulsa però al ritmo di un progetto più ambizioso. La sintesi è racchiusa nel logo che lo annuncia, Nucleo de desarrollo endogeno socialista Francisco de Miranda, e nel collettivo che lo rappresentata, il Movimento social revolucionario de trabajadores (Msrt). Una comunità auto-organizzata in un grande quartiere di Caracas, ai confini tra la zona di classe media e quella popolare del municipio Sucre.
Il quartiere è stato uno dei punti caldi delle proteste violente contro il governo Maduro, e la fabbrica occupata si è trasformata in una trincea di informazione comunitaria e di resistenza. Non lontano dal metro Los Cortijos, dietro una cancellata cigolante c’è un ampio piazzale adibito a mercato. Tony Rodriguez, coordinatore del nucleo endogeno ci offre spremute di frutta e ci fa strada tra i banchetti di produttori locali, raccontandoci la storia dell’impresa recuperata.
Una storia uguale a tante altre nel contesto di crisi della IV Repubblica. La Tocome chiude, i proprietari lasciano a casa i lavoratori sull’onda del Caracazo, la rivolta contro la fame e il caro-vita scoppiata il 27 febbraio del 1989.
Dieci anni dopo, con l’arrivo di Hugo Chavez al governo, le cose cambiano, le priorità si capovolgono: prima vengono gli ultimi. Si nazionalizzano le imprese, si tassano le multinazionali, si assegnano i terreni incolti espropriati al grande latifondo. La nuova costituzione apre un quadro legale inedito che incoraggia e sostiene l’autogestione.
Dopo il golpe contro Chavez del 2002 e la serrata padronale del 2003, il ministero del Lavoro fa un censimento per capire quali imprese necessitino di aiuto. Occorre rimettere in piedi l’economia, cominciare a ridimensionare la storica dipendenza al petrolio, incrementare la produzione nazionale. Risulta che 1.149 fabbriche, in maggioranza tessili, hanno chiuso e 756 sono parzialmente ferme.
In base all’articolo 70 della Costituzione, che mette al centro la democrazia partecipativa e «protagonica», affinché il popolo possa esercitarla in piena sovranità, sia nel campo economico che in quello sociale, occorre promuovere «modelli di autogestione e cogestione con associazioni cooperative, imprese comunitarie e altre forme associative». Nel modello di cogestione figura a volte lo stato, che attua come finanziatore e come azionista diretto, soprattutto in caso di fabbriche abbandonate e recuperate. Il boom delle cooperative e la scoperta di un sistema di imbrogli e subappalti provoca però una prima riflessione. In un secondo momento, le imprese vengono recuperate prevalentemente attraverso la nazionalizzazione, e in molte di queste si affida la gestione al controllo operaio.
Tony è un militante politico sempre in prima fila nei progetti di quartiere. Nel 2001 intralcia «gli interessi di certi settori privati» e qualcuno cerca di ucciderlo. Gli sparano, sopravvive e viene curato a Cuba. Torna con nuove idee sulla produzione comunitaria. «Nel 2003, racconta al Manifesto, abbiamo cominciato a discutere con un gruppo di abitanti del municipio Sucre sulla base delle esperienze delle fabbriche recuperate in Argentina. Abbiamo fatto un sopralluogo alla Tocom: 27 mila metri quadri all’abbandono e un edificio su tre piani, senza più macchinari. Abbiamo deciso di occupare e di creare occasioni di lavoro e di crescita sociale. E sono iniziati i turni di lavoro volontario per ripristinare luce, acqua e servizi». Al progetto partecipano «43 cooperative operanti nelle aree della carpenteria, della metallurgia, della meccanica, del tessile, piccole imprese di materiale pubblicitario e litografico».
Allora, a dirigere il municipio metropolitano di Caracas c’è il chavista Juan Barreto, teorico del municipalismo e delle comuni autogestite. Il 14 giugno del 2006, viene deciso l’esproprio dell’area e il 28 dicembre la comunità inizia il recupero degli spazi. «Contemporaneamente – spiega Rodriguez – abbiamo indetto un censimento nei quartieri del municipio, organizzato numerose assemblee per illustrare il progetto, abbiamo preso contatto con lacune istituzioni». Due anni dopo, le cooperative, le piccole e medie imprese e le riorganizzazioni comunitarie che animano il centro si dotano di un regolamento composto da 21 articoli, uno dei quali stabilisce che i suoi obiettivi di sviluppo economico e sociale devono coincidere con quelli stabiliti dalle linee di programma del governo socialista: «favorire la crescita del potenziale umano e non il profitto».
Attualmente, «grazie alla rivoluzione bolivariana qui lavorano circa 300 persone per un totale di 70 cooperative autogestite, create nell’ambito della Mision Vuelvan Caras, rivolta a giovani e adulti disoccupati. Il 60% del totale è costituito da lavoratrici. Abbiamo un asilo, un doposcuola e un dispensario gestito dai medici cubani. Tutto gratuito. Non si lavora più di sei ore al giorno e abbiamo una gestione in comune. Con quel che resta, creiamo qualcosa di utile per la comunità».
Venepal, Inveval, Inaf… Alla fine dell’anno scorso, il presidente Nicolas Maduro ha incaricato l’economista Juan Arias di censire e organizzare tutte le fabbriche e le imprese che sono sotto il controllo dei lavoratori creando il Sistema de Empresas Ocupadas, Recuperadas, Nacionalizadas y Creadas (Ornc). L’obiettivo è quello di correggere le disfunzioni, aumentare la produzione e il peso del lavoro autogestito all’interno del mercato produttivo. Secondo Arias, le imprese recuperate potrebbero arrivare a 500: più di quante ne esistano in Argentina (oltre 300), in Brasile (69), in Uruguay (una ventina) o in Messico, dove i lavoratori rischiano la vita e incontrano ben poco appoggio. In altre parti, tutto dipende dal giudice e dalla sua interpretazione della legge.
In Venezuela, il governo occupa le fabbriche che il padrone vuole chiudere e le consegna ai lavoratori, ma – tra burocrazie, inesperienze e inadempienze-, il controllo operaio necessita di nuova linfa. Nonostante i finanziamenti e l’impegno politico istituzionalizzale, i problemi ci sono: nodi teorici di lungo corso che precipitano nel «laboratorio» bolivariano e problemi dovuti al mercato in un paese che ne porta ancora impresso il forte segno.