Le banche italiane sono tra le peggiori per quanto riguarda il livello di redditività, presentano il triplo di sofferenze della media dei paesi Ue e anche la capitalizzazione media resta tra le più basse
17febbraio 2016 di Vincenzo Comito da sbilanciamoci.info/banche da paura3
L’avvio dell’unione bancaria è stata stimolata a suo tempo dalla consapevolezza della debolezza delle banche europee e dalla volontà di spezzare il legame tra debito pubblico e difficoltà bancarie. L’operazione doveva consistere in tre capitoli:
- un sistema di supervisione delle banche affidato alla Bce;
- una procedura comune di gestione e risoluzione delle crisi;
- un sistema, infine, ancora comune di assicurazioni dei depositi.
Ma grazie soprattutto all’opposizione tedesca il progetto è stato ridimensionato. La supervisione della Bce riguarderà direttamente solo i grandi istituti, dal momento che Berlino vuole continuare a gestire in privato le questioni delle proprie banche regionali e locali; eppure in diversi casi le banche piccole sono all’origine delle crisi. La garanzia comune per i depositanti è ferma perché sempre la Germania non vuole contribuire a garantire i depositi degli altri paesi. Infine, il sistema di risoluzione delle crisi è stato avviato con orizzonti solo di lungo termine e il fondo relativo è stato dotato di risorse largamente insufficienti, lasciando la gestione di gran parte dei problemi ai singoli paesi. In ogni caso, dal primo gennaio 2016 i costi delle crisi saranno sopportati in primis dagli azionisti, dagli obbligazionisti, dai depositanti (bail-in). In tale quadro, incidentalmente, appare singolare che il nostro paese, che a suo tempo ha approvato pienamente il meccanismo, ora lo voglia a gran voce rimettere in discussione.
Va sottolineato come l’unione bancaria, oltre ad essere incompleta, così come progettata, rischia di spingere ad un’escalation del processo di centralizzazione dei capitali bancari in Europa, a favore dei paesi del Nord, con in testa la Germania (Fazi, 2016).
I problemi del sistema bancario italiano:
In un’analisi recente dell’autorità di controllo europea (Eba), sono presi in considerazione i dati relativi a 109 banche del continente. Risulta che gli istituti del nostro paese non brillano per prestazioni su quasi nessun fronte. Quelle italiane sono le peggiori, escluso Cipro, per quanto riguarda il livello di redditività; presentano poi il triplo di sofferenze della media dei paesi Ue ed anche la capitalizzazione media resta tra le più basse. Il possesso di titoli pubblici nazionali nel portafoglio delle banche italiane appare abbastanza più elevato della media. Lo stock dei non performing loans del sistema creditizio italiano era stimato dal fondo monetario, ancora a metà 2014, come pari a 330 miliardi di euro (200 miliardi di insolvenze e altri 130 di crediti incagliati), corrispondenti complessivamente al 16,7% dell’attivo bancario totale del paese, contro una media Ue del 5,6%. Oggi si parla di 350 miliardi. Si ha poi notizia di un’indagine conoscitiva della Bce sui crediti deteriorati di sei banche italiane, mentre i titoli bancari perdono terreno in Borsa. I dubbi sembrano molti.
Si tratta di un macigno che blocca la ripresa dell’economia. A molto parziale consolazione possiamo peraltro dire che, le banche italiane sono molto meno esposte di quelle di altri stati europei sul fronte dei crediti agli operatori dei paesi emergenti e su quello dei prodotti derivati, due aree in questo momento ad alto rischio.
Il progetto di bad bank:
Si pensava di risolvere in qualche modo il problema dei crediti deteriorati con la creazione di una o più bad bank, partendo dalla constatazione di una differenza rilevante tra le valutazioni di mercato, che stimano i crediti dubbi tra il 20% e il 30% del loro valore nominale e quelle delle banche, che oggi riescono a coprire con i fondi svalutazione soltanto poco più della metà delle sofferenze.
Ma i vincoli posti dalle autorità di Bruxelles hanno alla fine obbligato il governo ad accettare un risultato finale molto poco convincente e sicuramente non risolutivo della questione. Così il sistema bancario si trova ancora di fronte a delle incertezze di rilevante peso.
Il caso Unicredit:
Che le cose non vadano poi bene nel nostro settore bancario è dimostrato dal caso di Unicredit (Sanderson, 2016), cui si guarda in questo momento da più parti con apprensione. La banca era nel 2004 una delle più redditive in Europa. In un periodo in cui l’economia sembrava andare molto bene, l’amministratore delegato, Alessandro Profumo, avvia un piano ambizioso di sviluppo, creando in poco tempo un’impresa rivolta verso il Centro ed Est- Europa (Germania, Austria, Polonia, perfino Ucraina), con una punta in Kazakhstan. Verrà poi l’acquisto di Capitalia, per reggere la concorrenza di Intesa-San Paolo. Ma, con lo scoppio della crisi, i conti non tornano più. Nel 2010 Profumo sarà sostituito da Ghizzoni.
Tra il 2009 e il 2012 sono necessari tre aumenti di capitale per un totale di 15 miliardi di euro, mentre le partecipazioni vengono svalutate per 14 miliardi. Nel frattempo si stanno cercando di vendere le filiali in Ucraina e in Kazakhstan, con rilevanti perdite, mentre ci si libera anche dell’attività nell’ asset management. In Italia la banca si ritrova con 84 miliardi lordi di non-performing loans, pari a quasi il 20% del totale dei crediti. L’ultimo piano, varato nel novembre 2015, oltre alla dismissione di molte partecipazioni, prevede meno occupati per di più di 18.000 mila unità. Ma il piano non ha convinto il mercato, in particolare molti analisti e molti azionisti, dal momento che non è chiaro come saranno smaltiti i crediti in sofferenza e mentre la redditività permane bassa. Così il valore del titolo in borsa due mesi dopo il lancio del piano è diminuito di circa il 35% ed esso ha perduto oltre il 90% del suo valore dal 2007 ad oggi. Si attendono ulteriori sviluppi, dalla possibile sostituzione di Ghizzoni ad un ennesimo aumento di capitale.
Basta con le banche?
A parte gli strenui difensori del lasciar fare al mercato, tra la maggioranza degli esperti del settore è maturata da tempo la convinzione della necessità di una riforma incisiva del sistema finanziario. Si tendono ad affermare due scuole principali.
- La prima chiede in sostanza un’azione che restituisca al settore bancario il suo ruolo di prima della grande deriva dei primi anni novanta, quindi attraverso le ricette su cui si è discusso per tanto tempo ( più capitale, separazione delle banche ordinarie dalle attività di trading, ridimensionamento degli istituti too big to fail, ecc.). Così il candidato democratico alle presidenziali, Bernie Sanders, chiede il ripristino del Glass Steagall Act e lo smembramento delle banche sistemiche, nonché degli hedge fund e di alcune assicurazioni.
- La seconda scuola mira invece a una messa in discussione radicale delle banche come le conosciamo ancora oggi. Indichiamo tre varianti dei possibili mutamenti.
La narrow bank:
Una vecchia proposta che è stata avanzata da tempo e che ora è tornata di attualità fa riferimento alla creazione di organismi che sono definiti come narrow bank o safe bank (banche ad operatività limitata). Essi manterrebbero i depositi dei clienti e gestirebbero il sistema dei pagamenti, ma impiegherebbero tali depositi solo in attività liquide o in obbligazioni pubbliche molto sicure. Essi non potrebbero svolgere attività in derivati, né detenere attività fuori bilancio e dovrebbero porre dei limiti alle paghe dei dirigenti. Verrebbe eliminato il collegamento tra depositi e intermediazione finanziaria, attività affidata ad altri organismi finanziari.
Il referendum svizzero
Una seconda ipotesi si richiama ad un referendum che si terrà presto in Svizzera (Ponsot, 2016) e che punta ad abolire la creazione monetaria da parte delle banche. Si prevederebbe che gli stessi istituti coprano integralmente i depositi, che sarebbero proprietà dei clienti (oggi essi hanno la natura di semplici crediti sulle banche), mentre le stesse banche agirebbero come esecutori degli ordini di pagamento dei clienti; anzi i depositi uscirebbero dal loro bilancio. Il potere di creazione di moneta verrebbe riservato alla banca centrale, secondo le linee già individuate negli anni trenta del Novecento, dopo lo scoppio della crisi, tra l’altro dalla scuola di Chicago e da Irwin Fisher.
Così si ripristinerebbe il controllo pubblico sulla moneta; la banca centrale agirebbe nel quadro di obiettivi a medio-lungo termine definiti costituzionalmente; il sistema monetario verrebbe messo al servizio dell’economia reale e della società, mentre oggi il 90% della creazione di moneta è in mani private. Le banche potrebbero continuare a fare credito, ma utilizzando solo le risorse della banca centrale, degli altri istituti, delle assicurazioni, o quelle provenienti dai mezzi propri o autorizzate dai depositanti.
Un mondo senza banche
McMillan (McMillan, 2014) progetta un sistema finanziario senza banche, ovvero senza la creazione di moneta attraverso il credito e utilizzando l’innovazione tecnologica come strumento per sostenere il cambiamento. Per i depositanti non cambierebbe nulla e il sistema dei pagamenti e il maneggio del denaro rimarrebbero come oggi. Gli istituti agirebbero come semplici custodi per i loro clienti. Essi distribuirebbero i depositi loro affidati a delle piattaforme elettroniche di prestito peer-to-peer; quando un depositante usasse la sua carta di debito per acquisti, il meccanismo fornirebbe la liquidità vendendo sul mercato istantaneamente qualche asset finanziario posseduto dal cliente stesso; se egli versasse della moneta in conto, l’algoritmo numerico troverebbe subito adeguate opportunità di investimento. E così torneremmo per altre vie a Gurley e Shaw.
Conclusioni:
Non vogliamo entrare nel merito delle tre proposte. Comunque ognuna di loro singolarmente o prese tutte quante insieme potrebbero costituire la base per una riforma in profondità del sistema bancario. L’importante è di riuscire a mobilitare le forze del cambiamento, come sembra si riesca a fare ora in Svizzera.
Testi citati nell’articolo:
- Fazi T., Tutti i pericoli dell’unione bancaria, www.sbilanciamoci.info, 9 gennaio 2016
- McMillan J., The end of banking : money , credit and the digital revolution, Londra, 2014
- Ponsot J-F., Réguler la finance sans abolir les banques, Le Monde, 16 gennaio 2016
- Sanderson R., Unicredit : Too big to thrive ?, www.ft.com, 10 gennaio 2016