Proponiamo la lettura di due interventi, selezionati dal Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati, in materia di “Agricoltura e dignità della persona”. Il primo di Dario Dongo e Marta Strinati, a seguire quello di Fabrizio Marcucci, entrambi pubblicati su “Il Manifesto” del 14dicembre 2016.
Amnesty international smentisce la Ferrero. L’olio di palma fa male, anche ai diritti.
Di Dario Dongo e Marta Strinati
Agricoltura insostenibile.
Un pericolo non solo per la salute e l’ambiente. Amnesty International documenta le condizioni di lavoro nelle piantagioni indonesiane collegate al colosso Wilmar: tra sfruttamento, mansioni più che usuranti, minori costretti ad aiutare i genitori e land grabbing. Emerge così la grande bugia del «sostenibile certificato» Anche oggi, come ogni giorno, c’è chi trascorre la giornata raccogliendo frutti a 20 metri di altezza (come un palazzo di 6 piani), servendosi di un’asta che pesa 12chili. È il popolo del palma, in Indonesia, fotografato da Amnesty International in un vibrante rapporto di denuncia. Indagini, interviste e fotografie che smascherano la grande bugia del «palma sostenibile certificato» da Rspo (Roundtable on Sustainable Palm Oil).
Bambini di 8anni devono rinunciare alla scuola, all’infanzia, per affrontare un lavoro che strema il fisico e brucia le mani. Un soccorso necessario ai loro padri che, se entro fine giornata non riescono a consegnare una tonnellata di raccolto, perdono una quota della già misera paga. Così lontano tuttavia, lo sfruttamento dei lavoratori indonesiani in agricoltura sbiadisce e anzi riceve implicite approvazioni, come quella recente di un membro del governo Renzi, Andrea Olivero. Viceministro dell’Agricoltura, lo stesso dicastero che ha celebrato la tanto attesa legge anti-caporalato, eppure si è schierato pubblicamente a favore di questo grasso tropicale ottenuto in condizioni estreme, solo per sostenere Ferrero e la sua Nutella. Una scelta inopportuna, evidentemente, che peraltro la dice lunga sullo scollamento maturato tra i rappresentanti di governo e gli italiani, ormai chiaramente consapevoli della necessità di arginare l’invasione di olio di palma, pericoloso per la salute, per l’ambiente, per i lavoratori delle piantagioni e movente primario del land grabbing, la rapina delle terre.
A rinfrescare le conoscenze sul tema provvede ora Amnesty International, che ha intervistato 120lavoratori impiegati nelle piantagioni collegate alla Wilmar, colosso indonesiano nel commercio di olio di palma, elaborando un rapporto che merita di essere letto. Ecco cosa racconta.
Il lavoro nelle piantagioni è tutto manuale, molto faticoso. I raccoglitori usano un bastone pesante 12 kg per staccare i grappoli da piante alte fino a 20 metri. Poi raccolgono da terra i grappoli: ognuno pesa dai 10 ai 25 kg e fornisce da mille a tremila semi utili. Li caricano su una carriola e li trasportano – su un terreno dissestato – fino al punto di raccolta. Le bacche devono arrivare al frantoio entro 24ore. Da qui l’olio estratto viene consegnato alle raffinerie (la sola Wilmar ne possiede 15, oltre a piantagioni e frantoi), dove viene processato. Vale la pena ricordare che qui avviene la raffinazione a elevata temperatura, causa dei contaminanti cancerogeni e genotossici che residuano nell’olio di palma impiegato anche negli alimenti, come segnalato dall’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Un lavoro così usurante è pagato a cottimo con salari da fame e un meccanismo di bonus-malus illegale. Modalità fuorilegge anche in Indonesia, paese che aderisce all’Ilo, l’Organizzazione Onu per la tutela dei diritti dei lavoratori, e che ha legiferato stabilendo l’orario di lavoro standard in 40ore settimanali, e fissando per gli straordinari un tetto di tre ore al giorno (o 14ore a settimana) per un compenso da 1,5 a 3 volte il salario orario. La norma (decreto 7/2013) vieta esplicitamente che il lavoro a cottimo sia pagato meno del salario minimo, ma questo succede sistematicamente, complice l’assenza di controlli in un settore controllato da colossi incontrastabili.
Nelle aziende su cui ha indagato Amnesty International il salario di un raccoglitore di frutti della palma varia in funzione della quantità consegnata: obiettivi imposti dall’azienda, ma in molti casi irraggiungibili, anche lavorando più delle 8 ore giornaliere. Un esempio: Abm (un fornitore di Wilmar) stabilisce per i lavoratori un obiettivo di raccolto giornaliero di quasi una tonnellata (950 kg) dagli alberi piantati nel 2006 (gli obiettivi variano in funzione dell’età delle piante: iniziano a dare frutti dopo 3 anni e raggiungono il picco massimo tra il sesto e il decimo). Se il raccoglitore raggiunge l’obiettivo percepisce il salario concordato, se lo supera riceve un bonus (una trappola per i bambini, che finiscono per lasciare la scuola e lavorare assieme ai genitori). Ma se fallisce l’obiettivo di raccolta riceve un salario ridotto di un settimo, indipendentemente dalle ore lavorate. Un lavoratore di Spmn ha testimoniato ad Amnesty International che l’azienda impone un obiettivo di raccolta di 24 sacchi di frutti «puliti» in cambio di 84,116 rupie indonesiane (circa 6 euro), che rappresentano il salario minimo. In realtà, alla fine di una giornata di lavoro l’uomo non riesce a consegnare più di 18 sacchi e la paga scende a 59.400rupie (circa 4euro), ben inferiore al salario minimo.
Violazioni simili si verificano nei confronti degli addetti alle unità di manutenzione degli impianti (per lo più donne). Qui c’è un carico di lavoro quotidiano. Se la lavoratrice non riesce a smaltirlo, si accumula al giorno successivo. Il volume di lavoro da svolgere è misurato in quantità di prodotti chimici da spargere nella piantagione. Per esempio, alla Pt Milano bisogna spruzzare nove serbatoi di prodotti chimici ogni giorno oppure diffondere da 15 a 17 sacchi di fertilizzanti. Ma se viene a piovere, la paga salta o viene dimezzata. Oltre che faticosa, questa mansione prospetta rischi sanitari anche gravi. Tra i prodotti chimici che i lavoratori devono diffondere ve ne sono alcuni molto pericolosi per la salute, vietati sia dall’Unione europea sia dalla stessa Indonesia, tra i quali il paraquat.
Tenendo presente il tipo di lavoro appena descritto, è facile comprendere quanto sia feroce «costringere» i bambini a lavorare nelle piantagioni. Ancora una volta, la mancanza di controlli lascia mano libera allo sfruttamento. La legge indonesiana infatti stabilisce in 15 anni l’età minima del lavoratore e in 18 anni l’impiego in attività pericolose per la salute psicofisica e per lo sviluppo sociale del giovane. Ma Amnesty International ha raccolto prove schiaccianti sull’impiego di bambini in attività pericolose nelle piantagioni di proprietà di due società controllate Wilmar (Pt Daya Labuhan Indah, Pt Milano) e di tre fornitori della stessa Wilmar (Abm, Spmn, e Pt Hamparan).
Tutti i bambini impiegati hanno meno di 15anni, alcuni hanno iniziato a lavorare a 8 anni. La maggior parte di loro aiuta i genitori a raggiungere l’obiettivo di raccolta giornaliera nel tempo libero: dopo la scuola, nel fine settimana e nei giorni festivi. Ma alcuni hanno abbandonato la scuola per lavorare tutto il giorno. Trasportano carichi pesanti, i sacchi con i frutti, spingono le carriole sul terreno dissestato della piantagione. Rischiano sia lesioni per l’eccessiva fatica, sia le malattie dovute all’esposizione alle sostanze chimiche continuamente diffuse.
I ricercatori hanno dovuto faticare per rompere l’omertà dei lavoratori adulti che portano i propri bambini nei campi. Il terrore di perdere il lavoro è più forte della protezione dei figli. Infine, Amnesty International è riuscita a intervistare 5 padri raccoglitori e 5 bambini impiegati nello stesso lavoro. Come un ragazzo di 14 anni, che ha raccontato di lavorare da due anni nella piantagione di una filiale di Wilmar: «Ho lasciato la scuola per aiutare mio padre perché non poteva più fare il lavoro. Lui era malato. Vorrei tornare a scuola».
Sullo stesso percorso è avviato un bambino di 10 anni, che ha già abbandonato la scuola e da quando aveva 8 anni aiuta il padre che lavora presso un fornitore Wilmar. A dispetto della legge e della policy sventolata dalla Wilmar e dai suoi fornitori, tutti sanno. Il padre ha detto: «Il caposquadra vede che i miei figli mi aiutano, dice che è un bene». Anche i dirigenti vedono. Uno di loro «è venuto quando il mio bambino mi stava aiutando e non ha detto nulla. Non esce dalla macchina, urla gli ordini al caposquadra senza scendere dall’auto».
Agricoltura e dignità della persona, il frutto dell’alternativa è Fuorimercato. Di Fabrizio Marcucci
Sovranità alimentare. Una ventina di realtà disseminate dalla Lombardia alla Sicilia, un’organizzazione al tempo stesso di produzione e di lotta, sul modello dei Sem terra brasiliani
C’è chi produce salsa di pomodoro e chi coltiva arance, chi fa il cioccolato e chi il caffè. Si tratta per il momento di una ventina di realtà disseminate dalla Lombardia alla Sicilia, dalla Puglia alla Toscana. Le ha unite la presa di coscienza del fatto che se vuoi tentare di produrre in maniera diversa, cioè rispettando la dignità delle persone e l’ambiente, e vuoi sottrarre migranti e non dal ricatto del caporalato e dello sfruttamento, devi unirti, ché da solo non ce la fai. E ciò vale soprattutto in un settore come quello dell’agricoltura, in cui a dare le carte, cioè a stabilire prezzi e quindi, a cascata, condizioni di lavoro e retribuzioni, è la grande distribuzione, che punta a pagare il meno possibile i prodotti che finiranno negli scaffali dei supermercati. È nata così la rete Fuorimercato, che di recente ha tenuto a Milano la sua terza assemblea nazionale e che nel prossimo mese di febbraio vedrà il suo quarto incontro a Rosarno (Reggio Calabria), dove si trova una delle realtà aderenti alla rete, «Sos Rosarno».
Ma che cosa è fuorimercato?
È da un lato un insieme di realtà che combattono, producendo, sfruttamento delle persone e dell’ambiente in campo agricolo. Dall’altro una serie di spacci, anche questi sparsi un po’ in tutta la penisola, che distribuiscono i beni prodotti che finiscono anche in mercati popolari e nelle liste dei Gruppi d’acquisto solidale di molte zone del nord Italia.
Detta così sembra facile, ma le difficoltà sono più d’una. Per questo Fuorimercato si sta tentando di strutturare come un’organizzazione al tempo stesso di produzione e di lotta. I modelli sono quelli del movimento dei Sem terra brasiliani e del Soc Sat andaluso, un sindacato che nella regione del sud della Spagna difende gli interessi dei braccianti. E qui si arriva a un altro pezzo del dna di Fuorimercato. Che oltre a essere una rete di produttori e di punti di distribuzione dei beni alimentari, è anche il tentativo di costruire un’alternativa.
«Siamo partiti dai bisogni», dice Gigi Malabarba di Rimaflow, una fabbrica lombarda che produceva per il settore automobilistico e che dopo essere stata rilevata dai lavoratori è stata riconvertita a «cittadella dell’altraeconomia» e oggi fa parte di Fuorimercato. I bisogni e i diritti cui tenta di fare fronte la rete sono tanti: quello dei migranti a un lavoro pagato dignitosamente e a un tetto decente sulla testa; quello dei braccianti e dei piccoli produttori italiani a non essere strangolati dai prezzi decisi da chi sta in alto. E quello dei consumatori di mangiare cibo decente e non avvelenato. Si tratta di cose diverse ma che si tengono insieme le une con le altre, e a Fuorimercato tentano di farlo. Come? «Con il mutuo soccorso», dice Gianni De Giglio di Sfrutta Zero, realtà pugliese attiva nel lavoro con i migranti.
Mutuo Soccorso.
Un salto all’indietro agli albori del movimento operaio per guardare al futuro: sorreggersi gli uni agli altri per evitare di farsi spazzare via dai giganti e garantire e garantirsi un’alternativa fatta di rispetto dei diritti, salubrità dell’ambiente e bontà del cibo. Ma se cerchi l’alternativa sei a tutti gli effetti una realtà anche politica. Così, questo strano animale che è Fuorimercato, si sta attrezzando per fare del mutuo soccorso una leva per agire a 360 gradi: dal punto di vista della produzione per tentare di tenere sotto controllo tutta la filiera:
«Per quanto riguarda coltivazione e trasformazione dei prodotti, ci siamo; la logistica e i trasporti invece sono le criticità, perché ad esempio per trasportare gli agrumi servono i tir, che noi non abbiamo; e sai, se riesci a dare continuità alle produzioni e alla filiera, crei anche lavoro e più in generale dai maggiore solidità a tutta l’organizzazione», dice Malabarba. «E affidarci ai corrieri non ci piace», aggiunge De Giglio. Perché? «Perché l’alternativa dev’essere completa, non ci possono essere coni d’ombra: non possiamo produrre e trasformare i nostri prodotti seguendo certi principi e poi affidarci per la loro spedizione a realtà che operano in modi che non condividiamo e che anzi combattiamo.
Così Rimaflow sta dando una mano fungendo da magazzino e consentendo così di fare meno spedizioni dal sud al nord e ottimizzando i periodi in cui si dispone di mezzi garantiti in mutuo soccorso da altri. L’altro versante è quello delle vertenze: per l’accesso alle terre e per il diritto alla casa, innanzitutto, sia dei migranti che dei nativi. E anche qui si tenta di fare mutuo soccorso. Così, se una delle realtà della rete dispone di competenze al suo interno su un singolo settore, le mette a disposizione di tutti. Agronomi, avvocati, commercialisti, esperti di web e quant’altro, attivi in uno dei nodi, diventano patrimonio di tutti. Insomma, «tentiamo di costruire l’alternativa praticandola, facendone vedere i frutti – dice Malabarba – perché la teoria da sola non basta».
Ma non solo
Alla base di Fuorimercato c’è proprio la volontà di costruire un’altra economia. Che a partire dalle emergenze più stringenti, quella dei migranti sfruttati dal caporalato particolarmente virulenta al sud, si allarghi ad altri settori della produzione e della distribuzione di beni e servizi. Per questo, dopo tre incontri nazionali e in vista del quarto, si sta mettendo in piedi il coordinamento nazionale, nel quale un paio di rappresentanti di ognuno dei nodi dovranno tenere il filo dei rapporti tra la rete e le singole realtà. E, a proposito di mutuo soccorso, si sta apprestando una «cassa comune» che consenta di sopperire alle esigenze primarie di Fuorimercato. Anche magari quelle derivanti dalle vertenze aperte.
«Il tentativo è di coniugare l’aspetto mutualistico e quello del conflitto, perché per cambiare le cose sono necessari entrambi», dice De Giglio. Ancora una volta: un passo indietro alle radici che resero saldo il movimento operaio, e sguardo avanti, «liberandosi dalle differenziazioni che spesso hanno minato le possibilità di alternativa per tuffarsi nel fare», chiosa Malabarba.