Accento francese, volto fiammingo, sguardo ironico e una passione per i fenomeni sociali 2.0 che attraversa in filigrana alcune delle sue opere più recenti
17 ottobre 2015 di Alice Barontini
Nell’arte di Thomas Amerlynck, giovane artista belga, possono convivere sullo stesso piano citazioni artistiche colte e riferimenti pop trovati sul web. Il risultato è una sedimentazione di immagini e segni che invitano lo spettatore a una lettura lenta e personalizzata, in cui l’abile tecnica è al servizio del concetto.
D – Sei nato a Anderlecht, in Belgio, ti sei formato tra Bruxelles e Firenze, hai partecipato a residenze d’artista e workshop in Germania, Francia, Palestina ed esponi a livello internazionale. Che rapporto hai con Livorno?
R – «Con Livorno ho un ottimo rapporto: sono anche fidanzato con una livornese da quasi 10 anni, quindi (scherza, ndr.) rischierei dicendo il contrario. A Livorno ho scoperto un mondo e anche il mio vocabolario si è arricchito con frasi tipicamente livornesi. Mi sono subito sentito in famiglia. Credo che lo spirito della gente livornese sia un patrimonio. Poi cè “ir mare” e ”ir cibo”, e ci sto di lusso».
D -Hai insegnato incisione all’Accademia d’Arte Trossi Uberti, dove esponi le tue incisioni dal 10 ottobre al 1 novembre con la personale “Usare l’acido”. Che effetto ti fa?
R – «Lavorare con la Trossi Uberti è stata una grande soddisfazione, un onore. Anzi, ringrazio ancora la scuola per avere creduto in un giovane straniero con l’accento francese. Con un gruppo di allievi ho potuto mettere in pratica una filosofia d’insegnamento che mi ha dato piena soddisfazione. Insegnare alla Trossi è stata un’esperienza determinante per la mia carriera: ho alta stima della scuola e delle persone che la fanno vivere. Esporre qui, partecipando alla vita culturale livornese, è un piacere sincero».
D – Com’è iniziato il tuo percorso nel mondo dell’arte e cosa ti affascina in particolare dell’incisione?
R – «Da quel che ricordo, ho sempre disegnato. A un certo punto ho deciso che disegnare non sarebbe più stato un hobby ma un’attività professionale. Da quel momento fare arte si è trasformata da un’esperienza intima a una questione collettiva. Apprezzo tante forme d’arte ma l’incisione ha qualcosa in più…Penso che questa mia convinzione sia legata all’ambiente dell’atelier e alla sua alchimia. Devo anche confessare che mi ha aiutato a strutturarmi nel lavoro, a farmi crescere. Le tempistiche lente d’esecuzione danno all’incisione un carattere analitico, quasi meditativo».
D – Come nascono i tuoi lavori?
R – «Possono nascere da un pensiero, da una riflessione, da un’osservazione, da una lettura…Oppure dallo stesso fare, cominciando a lavorare senza idee chiare in testa. A volte alcune idee prendono vita da un imprevisto, magari da un incidente durante la realizzazione dell’immagine. Di solito, comunque, per le mie ricerche grafiche parto da diversi tipi di documenti visuali. Mi sono creato un corpus di lavoro, sia referenziato che grafico attraverso il quale la riflessione si materializza in opera».
D – Nei lavori più recenti, per esempio con il ciclo Face-bouc, mi pare che la riflessione sul sociale sia più intensa. Come hai sviluppato questa tematica?
R – «Un artista si esprime tramite il suo lavoro. Esprimersi non è facile, richiede una lettura introspettiva di se stessi, per capire cosa abbiamo da dire, al di là del far vedere una bella tecnica. I miei lavori più vecchi mi hanno aiutato a costruire la mia posizione nel campo artistico: vedo al loro interno delle scoperte ideologiche, tecniche ma anche alcune insicurezze. Piano piano si è affermato il carattere ironico della mia pratica artistica, che ovviamente ho amplificato con il tempo. M’interesso molto alle questioni sociali, fra cui quelle che si sviluppano nel mio campo: la cultura. Nei lavori più recenti ho creato delle interazioni usando dei riferimenti legati alla Cultura, scritta con una c maiuscola, con la cultura cosiddetta popolare, per creare immagini ibride. Metto sullo stesso piano le qualità di un ritratto di Hans Memling e una foto anonima di un profilo FB. Non ho problemi a far convivere su una parete durante una mostra soggetti come Rex, il cane poliziotto o San Nicola. Non voglio fare politica, solo mostrare diversi tipi di miti. Ora sto lavorando sulla soap Beautiful e, in particolare, alle molteplici reincarnazioni di Taylor. Tanta roba, gli intellettuali devono sapere…» (e ride divertito, ndr).
D – I tuoi strumenti di lavoro preferiti?
R – «Un ferro da stiro e una pistola ad aria compressa».
D – Usi una tecnica particolare?
«Non è che sia un’ossessione ma non posso negare che uso molto l’acquaforte».
D – Tecnica e idea: cos’è più importante per te?
R – «Sul campo dell’incisione i due aspetti sono fondamentali. L’idea è quello che caratterizza un individuo da un altro, la tecnica bisogna conoscerla per rendere al meglio l’idea. In un buon lavoro tecnica e idea devono dialogare».
D – Cosa ti affascina del mondo dell’arte contemporanea e cosa invece non sopporti?
R – «L’arte è l’unica attività umana che ha il senso che gli diamo, e più ci avviciniamo a definirlo più sparisce. L’arte contemporanea è un buon indicatore della salute della nostra società. Quello che mi è più difficile da accettare – anche se lo capisco benissimo, visto che io stesso contribuisco ad alimentarne il meccanismo – è la sua commercializzazione. La commercializzazione impone nuove regole con cui dobbiamo lottare. Non è difficile capire lo standing di oggi, cosa il mercato si aspetti e quali siano le persone che creano queste aspettative. Penso a Jeff Koons: le sue posizioni nel campo dell’arte sono geniali, si può permettere di appendere un’aragosta di plastica di oltre due metri a Versailles e ricevere al tempo stesso la prestigiosa “Légion d’honneur”. Come Marcel Duchamps prima di lui, la loro arte gioca con le perversioni del nostro sistema.
Oggi siamo testimoni di una standardizzazione dell’arte: anche se è un fenomeno naturale a me continua a piacere la singolarità».
D – I tuoi punti di riferimento imprescindibili nel mondo dell’arte?
R – «Ne ho tanti. L’ultimo che ha presto posto nella mia Top Five è lo scultore svizzero Roman Signer».
D – L’opera che avresti voluto fare tu?
R – «Il restauro di Ecce Homo nel Santuario della Misericordia di Borja, in Spagna»
(Per chi non lo sapesse, si tratta di una storia surreale: una vecchietta, animata da nobili intenti, decide di aiutare la sua parrocchia restaurando un affresco che ritrae Cristo. Il risultato però è così disastroso da fare il giro del globo, fino a trasformare il volto di Cristo deturpato dall’anziana signora in un meme su Internet, ndr).
D – Quali sono le tue passioni e come influiscono, se lo fanno, sulla tua arte?
R – «Mi piacciono i fenomeni di popolarità effimeri su Internet. Con il mio lavoro #puòaccompagnaresolo»
(Thomas ci tiene a che io non riveli troppo su questa citazione, chi vuol capire di che si tratta – dice – può cercare su Internet, ndr).
D – I tuoi segni sono puntuali, meditati, altamente definiti, quasi chirurgici. Nell’insieme però i personaggi che emergono nelle tue opere risultano solo in parte riconoscibili a livello figurativo. Come spieghi questa dissonanza?
R – «Una cosa che comprendiamo immediatamente non richiede più attenzione da parte di chi la osserva. Una volta capita, passiamo ad altro. Invece se rimangono dei dubbi sulla sua comprensione, l’opera richiede di essere rivisitata. Gli spettatori si fanno la loro interpretazione dell’opera e quindi entrano in un rapporto personale e intimo con essa. La rendono più complessa, ricca di senso. La vedo come una cosa bella, ci tengo molto».