Ancora Ecuador, su fatti che solitamente i media non ci raccontano. In una società dominata dalla comunicazione, in questi giorni in Ecuador non è accaduto nulla, questa la cruda realtà, su cui riflettere.
25agosto 2015 di Aldo Zanchetta
Quanto accaduto in questo paese, il modo in cui è stato letto o taciuto, sia in America Latina che altrove, invita a profonde e preoccupanti considerazioni che ritengo utile condividere.
A partire dall’interrogativo sul significato, oggi, della parola ‘sinistra’? Probabilmente un ostacolo a riflessioni lucide e disincantate. Intanto però, per ribadire che qualcosa di importante è realmente avvenuto, riproponiamo, anche se sinteticamente, i fatti per quanti non ci avessero ancora letto. Rinviando alla seconda parte dello scritto le riflessioni.
La parabola di un Presidente:
In Ecuador nel 2006 improvvisamente si è accesa la stella di Rafael Correa, un giovane economista brillante, volitivo, capace. Partendo da un penalizzante secondo posto al primo turno per le elezioni presidenziali, con una notevole capacità mediatica e organizzativa trionfò al secondo (dal 22,84% al primo turno al 56,67% al secondo). I segreti del successo: un lemma trascinante (Alianza Pais dove Pais sta per Patria Altiva i Soberana, cioè Alleanza per una Patria orgogliosa e sovrana), un obbiettivo mobilitante (la promessa di una Assemblea Costituente per una nuova Costituzione), un messaggio rivolto a sinistra (l’adesione a un non ben definito ‘Socialismo del XXI secolo’, lui che socialista non era mai stato!).
Alcuni fatti convincenti all’inizio del mandato: il mancato rinnovo della concessione della base navale di Manta agli Stati Uniti, l’audit del debito estero, la cacciata del fondo monetario internazionale, i diritti della natura inseriti nella Costituzione. Quanto bastava per farne, con Chavez e Morales, il terzo idolo di un mondo di sinistra, anche nostrano, bisognoso di consolazioni dopo tante sconfitte. Non vogliamo certo negare certi suoi successi iniziali: il rafforzamento dell’apparato statale, la riduzione della povertà grazie a vari generi di bonos, un vasto piano di opere pubbliche… Creata così l’immagine, sapientemente coltivata con focosi discorsi progressisti e patriottici in varie assemblee internazionali, grazie anche a un physique du role e un’abile oratoria, è iniziata la retromarcia, dapprima lenta poi sempre più accentuata: il rispetto della natura visto come palla al piede, le promesse di una trasformazione sociale del paese sostituite da un cambio di guardia nella struttura capitalista del paese, dalle vecchie oligarchie terriere ai rampanti imprenditori impregnati di neoliberismo ultimo grido, dalla sovranità del paese all’enorme indebitamento con la Cina, che non si lascia sfuggire l’occasione di accrescere le sue imposizioni, e infine il ritorno dell’FMI e della Banca mondiale.
Gli indigeni, che lo avevano portato al potere, con il loro richiamo alle promesse, costituiscono una palla al piede per le reali politiche di Correa. Così, nel 2011, in una delle tante invettive pubbliche affermò: il maggior pericolo per il nostro ‘progetto paese’ è rappresentato dal sinistrismo, dall’ecologismo e dall’ indigenismo infantile. Alle parole seguirono i fatti, e cominciò la progressiva cancellazione dei diritti che gli indigeni avevano conquistato in decenni di lotte, dalla decade degli anni ’80 del secolo XX fino a quelle dell’inizio del XXI.
La popolarità di Correa, seppur lentamente, comincia però a calare e se la sua rielezione nel 2013 è avvenuta con un buon margine (57,22%), le elezioni amministrative del 2014 hanno visto la vecchia destra recuperare le alcaldie delle grandi città: Quito, Guayaquil, Cuenca. Il vento infatti è cambiato sul mercato internazionale delle materie prime, sulla cui bonanza si era basata la disponibilità di fondi per le politiche sociali, assistenzialiste e non trasformative della struttura economica, e sul piano finanziario con il rientro nelle rispettive patrie dei capitali speculativi internazionali come conseguenza della nuova politica della FED statunitense.
Gli ultimi avvenimenti:
A luglio prima Ecuarunari, la componente indigena più attiva della Conaie, quella dei popoli kichwa, e poco dopo la stessa CONAIE, la Confederazione delle Nazionalità Indigeni dell’Ecuador, proclamano una “sollevazione” chiedendo un referendum costituzionale circa la revoca di Presidente, vice Presidente e deputati dell’Assemblea. Per sostenerla organizzano una marcia di più giorni dagli estremi nord e sud del paese verso la capitale. Contemporaneamente la FUT (Federazione Unitaria dei Lavoratori), in agitazione da vari mesi, proclama uno sciopero generale in coincidenza dell’arrivo della marcia a Quito. Molte le motivazioni, alcune delle quali specificatamente indigene. Di questo abbiamo parlato in articoli precedenti cui rimandiamo.
Di queste le principali: il ritiro delle modifiche costituzionali proposte dal governo all’Assemblea, dove dal 2013 Correa controlla la maggioranza assoluta. Fra queste, la più ostica, l’eliminazione della non rieleggibilità oltre il secondo mandato, ragione per la quale Correa non potrebbe ripresentarsi nel 2017. Poi la non ratifica del Trattato di Libero Commercio con l’Unione Europea, fortemente penalizzante per i piccoli produttori nazionali. Poi, una fra le esigenza specifiche del mondo indigeno, ripristino dell’insegnamento bilingue, gestito dagli stessi indigeni, e riapertura dell’Università Indigena Amatawi Wasi, uno dei fiori all’occhiello di questo ampio mondo.
Ma la azione politica più significativa in senso autoritario è stato l’imbrigliamento di ogni forma associativa regolata da alcuni mesi da una legge che di fatto pone le forme sociali intermedie sotto una gestione autoritaria statale. Senza iscrizione a un apposito registro e al rispetto di un certo numero di regole, impossibile riunirsi associativamente.
Sulla dura repressione avvenuta in occasione della marcia e sui manifestanti del 13 a Quito, ne parleremo nella seconda parte di questo scritto perché rientrano in un panorama assai più vasto, quello dello “stato di eccezione” decretato dai vari governi e che ormai arieggia nel mondo.
Alejando Moreano, studioso di prestigio, autore fra l’altro del libro “El apocalipsis perpetuo”, commentando i fatti di questi giorni scrive:
“Se la decade degli anni 70 fu quella dei grandi scioperi Nazionali dei lavoratori e quelle degli anni 80 e 90 della sollevazione dei popoli indigeni, la mobilitazione attuale mette in combinazione le due forme e le due forze sociali. Lo Sciopero Nazionale del popolo degli anni 70 e 80 che convocava a partire dagli operai i settori popolari della città, scoprì nella Marcia la forma politica della mobilitazione dei lavoratori, degli abitanti delle città delle classi medie. Il FUT nelle diverse Marce convocate nel Settembre e Novembre dello scorso anno e del Maggio di quest’anno, ha sviluppato la Marcia come forma sociale e politica per eccellenza. L’attuale mobilitazione nazionale è Sollevazione indigena e Marcia popolare.
E ora? Prospettive
Si sta discutendo sul successo dell’iniziativa indigena e sindacale di questi giorni. Come tradizione ognuno tira l’acqua al proprio mulino. Il giudizio espresso da Kintto Lukas, già vice-ministro degli Esteri del governo Correa, poi dimissionario per dissensi, in sintesi è questo: la sollevazione indigena non ha avuto la forza di una vera sollevazione ma ha avuto indiscutibilmente una adesione importante, e se lo sciopero indetto dalla FUT non è stato generale, tuttavia ha dato luogo a una grande marcia partecipata anche da alcuni settori della classe media della capitale.
Ma, come insegnava ai suoi collaboratori il compianto tatic Ruiz (Samuel Ruiz Garcia vescovo del Chiapas), i fatti politici non vanno valutati in sé ma nell’insieme del processo in cui si iscrivono. Nel 2013 Correa con il 57,17% dei voti ha sconfitto nettamente la destra, divisa allora in più tronconi con candidati diversi (il primo di loro, Lasso, ebbe il 22,68%) mentre il candidato delle sinistre, Alberto Acosta, ebbe il 3,26% dei voti. Le amministrative dello scorso anno hanno dimostrato che la destra ha capito la lezione e mostrandosi più unita ha inflitto una parziale sconfitta a Correa.
E la sinistra e i movimenti? Scrive ancora Moreano:
La mobilitazione è totalmente estranea alla destra, che la combatte con altrettanta o maggior decisione di Correa.
Il presidente della CONAIE, Jorge Herrera, uno dei più chiari dirigenti indigeni, è stato più volte deciso nel separare i campi e nelle ultime manifestazioni ha controllato gli infiltrati che agivano come forza di shock e garantito una lotta pacifica di massa. […] Un altro forse dei migliori dirigenti indigeni, Severino Sharupi, dirigente dei Territori della CONAIE, ha caldeggiato la costruzione di una terza forza per evitare che la tenaglia dello scontro della destra liberale con il governo, nella prospettiva delle elezioni del 2017 renda prigioniero il popolo ecuadoriano.
[…] Costruire una terza forza costituisce la miglior garanzia che la dinamica sociale accumulata grazie al movimento indigeno e ai lavoratori ecuadoriani non venga usata dalle due fazioni politiche del potere. […] Si tratta di darle una forma politica, un’organizzazione di tutti i protagonisti, inclusi i partiti della sinistra, che formuli una strategia politica, inclusa quella per le elezioni del 2017.
Terminiamo qui l’analisi dei fatti, che hanno registrato una violenta repressione del governo, e a partire dalla quale continueremo con una serie di riflessioni che ci vedono coinvolti, come spiegheremo.
Aldo Zanchetta, continua…